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martedì 22 luglio 2014

Gaza, la carta, le baguettes



A quindici anni frequentavo un liceo pieno di gente che, a tutti i costi, sentiva di dover apparire diversa. Dai propri coetanei, dalla prole ordinata e ordinaria che genitori avvocati o impiegati di banca avrebbero desiderato avere. Per non somigliare a chicchessia, gli studenti finivano nel gorgo dello stereotipo del ribelle, sfoggiando infinite paia di anfibi viola, cotonature rasta, padiglioni auricolari sforacchiati senza ritegno, bomber e chiodi da combattimento. Quando scoppiò la Guerra del Golfo, tutti noi implumi boccaloni avemmo un nuovo, ottimo motivo per modificare temporaneamente il look. Ai nostri stracci borghesi, aggiungemmo in massa il bianco e nero - qualche impavido, il bianco e rosso - della kefiah, a sostegno del popolo del Kuwait, annichilito dal dittatore iracheno. Molti ragazzi neppure sapevano dove fosse collocato, sulla carta geografica, quel povero staterello. E neppure l'Iraq, a dirla tutta. Ma il bisogno di cavalcare una causa giusta, di manifestare per qualcosa di più dignitoso della mancanza di carta igienica nei bagni, la necessità di schierarsi con il debole oppresso, la pigrizia di accontentarsi di qualche slogan, bastavano e avanzavano. La kefiah finiva attorcigliata al collo, sfoggiata, mostrata come un vessillo, meglio ancora se in pendant con una copia del Manifesto, che nessuno leggeva, ma faceva un sacco fico portare a spasso come una baguette.
La storia non ci appassionava. E i paesi arabi erano un po' troppo in Africa per destare il nostro interesse. A scuola si arrivava a studiare, e solo all'ultimo anno, la prima guerra mondiale; quindi il '48, con l'istituzione dello Stato d'Israele, rimaneva una vaga eco mutuata da genitori comunisti o poco più. Eppure quel conflitto ardeva, lungo la striscia di Gaza, da quasi un secolo. Ebrei cattivi, arabi buoni. Ebrei ricchi, arabi poveri. Ebrei prepotenti, arabi schiacciati. Il succo era quello. Tutto il resto, navigava in un brodo lento di inutili dettagli religiosi, politici, pseudo-culturali. Africani. 
Non sapevamo nulla e non ce ne fregava un tubo. La kefiah bastava, per mostrarci solidali.
Oggi, quasi venticinque anni dopo, ho imparato a leggere un quotidiano fino in fondo. Ascolto il telegiornale con un orecchio terrorizzato e l'altro sfiancato dall'accidia. Mi documento. Ho persino rivalutato lo studio della storia e ammetto una certa vergogna per quel libro del liceo lasciato pressoché intonso. Non indosso più la kefiah. Prima di smarrirsi durante l'ultimo trasloco, quella che avevo finì a foderare il cuscino della mia sedia da scrivania.
Oggi so quale potere abbia lo Stato di Israele, quanto siano pericolosi e indispensabili i tunnel scavati dai palestinesi per aggirare l'embargo, quanto sia strategico l'Egitto, quanto siano affamati gli Stati Uniti, quanto siano potenti i dispositivi anti-razzo degli israeliani e quanto sia vile, da una parte e dall'altra, l'uso degli esseri umani come scudi, come scuse.
Ma continuo a non capirci nulla.
Non comprendo i cadaveri ammassati. I "civili" plaudenti che assistono ai bombardamenti sgranocchiando popcorn. I bambini che scrivono messaggi sui missili, prima che essi vengano lanciati contro il nemico. Non comprendo il concetto stesso di nemico. Sono confusa, troppo e, come dice il cinquenne Topodimamma, mio figlio, lo sono talmente che "mi fa perfino un po' male il cervello". Forse basterebbe imitarlo mentre, strizzando gli occhi, afferma di mettere in atto la "cancellazione della memoria"; e lo farei pure, se non fossi convinta che il problema sia proprio lì. La storia, al liceo, mi ammorbava, perché mi sembrava uno sterile elenco di date e guerre e nomi di generali. Che si ripetevano all'infinito.
Non capivo, non sapevo che una baguette non è mai innocua.

Topodimamma mi guarda, sbircia la tavoletta tecnologica e mi dice "ma l'hai scritto tu, quello? Tutto da sola, così lungo?", indicando il testo. Alla mia risposta affermativa, spalanca gli occhi ed esclama "Wow!" ché, a cinque anni, già una sola parola di otto lettere è lunghissima. Poi piega un foglio di carta e realizza "il mio aereo da guerra! Wuuum!", ignaro dell'inquietante coerenza. Per fortuna, dopo il primo lancio, ci tiene a chiarire che lo aprirà e lo ripiegherà per farci qualcos'altro, "ché se uso tanti fogli devono tagliare troppi alberi, e poi respiriamo male!"
Hai ragione, Topo: la carta serve. Per i libri, per Il Manifesto, per i bagni.