non leggere









domenica 4 maggio 2014

Di fatine, edere e problemi oftalmici




Papà, mamma, Il Topo e La Cana: la famiglia al completo, ieri, è andata in missione. Recuperate le radiografie della Cana, la meta era l’ambulatorio del vecchio veterinario, un omone rude e barbuto che vive e opera - è il caso di dirlo - sulla terraferma. Fatta la visita, in tasca fitte ricette di cortisonici, antiepilettici e complessi schemi di posologie a scalare, i quattro moschettieri hanno deciso di addentrarsi nel dedalo di viuzze disegnato dai banchi del mercato rionale. Tre boxer dieci euro, calzini dell’Uomo Ragno, calzini di un anonimo blu, pantaloni per l’asilo e una cuccia con doppia imbottitura: un buon malloppo, in tempi di crisi. Dopo la sosta al parco giochi, con annesso congruo numero di acrobazie topiche (espletato con fervore tra proboscidi giganti di vetro-resina e metallici anelli rotanti), il drappello ha occupato un piccolo desco all’aperto, per rifocillare stomachi languenti con toast, patate e seppie arrostite.
Siamo rientrati alle quattro, appena in tempo per evitare l’ennesimo piovasco della settimana.


Stamattina c’è il sole. Ho lavato i piatti rimasti nell’acquaio da ieri sera. Poi, con la tazza grande tra pollice e indice, sono uscita nell’orto, a bere il caffè all’aperto. La neve dei pioppi svolazza sin qui. Il fico s’è fatto frondoso: un’armonica cascata verde che manco nell’Eden. Il finocchietto selvatico, vaporoso e profumato, solletica il minuto vitigno di non sappiamo bene quale uva. Le pianticelle di pomodoro sono cresciute di una spanna, a un metro dall’albicocco nano, che produce frutti altrettanto nani, ma succosi e dolcissimi. Gelsomino, passiflora e glicine rivaleggiano sul graticcio del portico, con sommo disinteresse del limone e del melo radicati - noncuranza e arborescenze - nei pressi della vasca dei pesci.

È lì, che mi cade l’occhio. Poco sopra il muretto a secco che delimita il nostro giardino.
Ieri, mentre eravamo in trasferta, le fatine delle cinta, alacremente e in gran segreto, devono essersi date parecchio da fare: tra il nostro rigoglioso fazzoletto di terra e il bigio, lastricato scoperto dei vicini, è apparsa una nuova rete fiammante. Alta, densa, compatta, impenetrabile. Siamo al secondo episodio: il primo, provvidenziale intervento per rimpolpare la recinzione sospettammo fosse stato messo in atto a causa di impudiche vangate a torso incanottato del Papàditopo. Operazioni agricole considerate, evidentemente, ad alto tasso pornografico.
«Così i nostri figli non vi disturbano», ci dissero allora.
Stavolta, l’impegno profuso è aumentato: sulla vergine e smeraldina trama metallica s’è inerpicata, magicamente, un’edera. Un’edera di plastica. Un’edera di plastica che fa molto natura, si coordina adorabilmente con il parquet da esterno e con le zanzariere, e non attira formiche, tutte zampette e antenne nere e cheschifocazzo.
«Così i nostri figli non vi disturbano», ribadirebbero, se fossimo tanto screanzati da dichiarare i nostri dubbi circa l’esistenza delle fatine delle cinta.
Il linguaggio è un fattaccio acquisito, e persino in una casa timorata di Dio la profusione, gridata e costante, di coglioni e vaffanculi si propaga dalle lingue dei padri a quelle dei figli. La prole cui si fa riferimento, per una paletta rubata o un paio di orecchini fucsia sfoggiati con troppa civetteria, sa rendere onore agli insegnamenti genitoriali e farsi molesta anzichenò. Eppure a me continua a risultare difficile credere che, annaffiando una verzura di polietilene, essa possa tramutarsi in una barriera fonoassorbente. Probabilmente, dunque, il problema non è otorinolaringoiatrico, bensì oftalmico. E vai a capire se, in quel povero occhio offeso, si sia infilata una pagliuzza o una trave! 
Questi bravi cristiani non devono essere spiati. E, soprattutto, non devono cadere nella tentazione di spiare, specie i più giovani. Non sia mai che capiti loro di intercettare dell’autentica gioia su volti dichiaratamente miscredenti, di assistere a sregolati gesti di gentilezza, di veder fiorire piante vere, di sapere che ci sono bambini che giocano con il fango senza rischiare la decapitazione, di sospettare che i dogmi possono non essere assoluti. Certe patologie oculari sono contagiosissime, e le fatine delle cinta lo sanno meglio di ogni altro. Per questo, instancabili barricadere, si schermiscono dietro l’allusione a un puerile «Lo facciamo per voi». 
Excusatio non petita, accusatio manifesta, dicevano gli antichi; ma le fatine, da quando la Chiesa s’è modernizzata, non lo parlano più, il latino. 
Poco male, in ogni caso. Quest’estate ci faremo sontuosi bagni nella piscina autoportante in costume adamitico, dopo ogni temporale salteremo nelle pozzanghere di fango più rosei e ridanciani di Peppa Pig, pisceremo sull’erba a favore di vento e daremo il via al più clamoroso campionato mondiale di rutto libero.

E vedremo come se la cavano, le fatine, con malta e cazzuola.