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giovedì 27 febbraio 2014

Solo chiacchiere e imperativo




La visita chirurgica di controllo ce l’ho alle undici e trenta. Bene, c’è tempo. Faccio il bagno, abbandono la vasca con una certa riluttanza, mi vesto e asciugo i capelli. Alle dieci meno un quarto esco di casa. Nella sporta appesa al polso sinistro giace il costume da Superman per Topodimamma. Avevano la festa in maschera, oggi, all’asilo. Ma sono una genitrice distratta e mezza orba e no, il cartello non l’avevo visto. O l’ho visto e non l’ho guardato. O l’ho guardato e non l’ho letto, e se preparate ‘sto cavolo di rogo ad arte, mi ci sdraio su per lungo e la finiamo, va bene? Il piccolo, inguainato nella pingue, eroica tuta blu e rossa, è felice. Dei suoi muscoli posticci, della cintura gialla, di non essere più diverso dagli altri, come gli era capitato da tre quarti d’ora a questa parte.

Varco l’ingresso dell’ospedale che non sono neppure le dieci e mezza. L’infermiera a guardia degli ambulatori mi conferma che sì, devo pagarlo, il ticket, ché i trenta giorni dall’intervento sono trascorsi e la pacchia delle visite gratis è finita. Torno al pianterreno. Meglio evitare la cassa automatica dalla parte del Pronto Soccorso, penso, visto che prima c’era una coda da formicaio. E poi, penso ancora, nell’atrio vicino al patio ce ne sono due; si farà più presto, no?!
Ottimo, sono entrambe operative, ri-penso, e la sala è vuota. Davanti a me ci sono soltanto un signore che pigia tasti virtuali sul monitor a sinistra e una signora, a destra, che sfila impegnative dalla borsa a ciclo continuo; per un istante mi viene il sospetto che, in quella finta Calvin Klein, ci sia un allegro chirurgo grafomane in carne e ossa.
Io attendo, due passi indietro, sulla piastrella perfettamente in mezzo ai due sportelli automatici.
Il digitatore a sinistra ritira la ricevuta e se ne va, mentre la donna a destra pesca ancora dalla solita zip. Mi avvicino al monitor libero sbirciando l’ombra di una tizia, capitata lì chissà come, farsi inspiegabilmente sempre più ampia.
«E ciò! Xe rivada éa, sa!» strilla la fonte dell’ombra a una seconda obesa fonte, squacquarata su una povera sediola.
«Scusi, guardi che toccava a me...» replico io.
«No, cara! Éa gèra in cóa su ‘staltra machineta!»
«Sì, d’accordo, mi sono leggermente spostata dal centro, perché pensavo che la signora avesse finito, ma...»
«E de qua ghe g’ero mi!»
«Ma io ero qui dentro prima di lei! Si seguirà l’ordine di arrivo, no? Cosa cambia quale sportello si sia liberato, nel frattempo?»
«Lei è una maleducata! Se i faxesse tuti cussì!»
«Io, sarei maleducata?! È lei che sta strillando... per nulla, poi!»
«Io ero qua prima!»
«No, guardi: qui dentro, oltre ai due signori che già pagavano i ticket, c’ero solo io.»
«No xe vero!»

Nel frattempo, rapida e indolore, termino l’operazione telematica. Mentre estraggo la ricevuta dall’apposita boccuccia rigida, Fonte D’Ombra continua a blaterare, con un tono di voce sempre più stridulo e aggressivo.
Mi volto verso il latrato. Fisso gli occhi di quella strana bestia con il piglio più fiero e minaccioso di cui dispongo.
«Lasci perdere,» ringhio, «ha fatto la prepotente per niente e, per di più, con la persona sbagliata.»
«Tanto ghe tornarà tuto indrìo!» mi risponde, novella Cassandra in salsa veneta.
«Togliti-di-mezzo-ragazzina.» sibilo. Ho così tante fiamme nelle pupille che, per spegnerle, servirebbe una cisterna di collirio.
«Ah sì?» fa quella, «Allora sa che cosa le dico?»
«Cosa?»
«Vadi a fare in culo, le dico!»

Ebbene: non ci ho più visto. Ho sferzato la stronzetta con un’ala del giaccone per liberare il passaggio, le ho sputato in faccia la risata più sarcastica del creato e ho preso la porta, ululando che manco un lupo delle steppe. Cosa le ho gridato?
«Si dice vadA, a fare in culo! VadA, con la A, cazzo! L’imperativo, testa di rapa! Terza persona dell’imperativo, porco cane! VadAAAAA!»

La visita l’ho fatta. Alle undici e trentadue. Non c’era il solito chirurgo. Il sostituto era il primario. Cordiale, preciso e persino scherzoso. Aveva una mano di piuma, e pure inguantata, in senso lato. Non ho sentito nemmeno un po’ di male. Mentre uscivo dall’ambulatorio, una volontaria dell’AVAPO mi ha regalato una caramella. Al pompelmo rosa. 
Buonissima, alla faccia di Cassandra.


lunedì 3 febbraio 2014

Giovanni elicotterista



Ha vissuto una guerra, è stato fatto prigioniero dai francesi e dagli inglesi, ha imparato, ben presto, a stare lontano dal fischio delle bombe e dalle sigarette; e a smontare e rimontare un’auto, abilità assai apprezzata, in un attendente. Ha avuto quattro figli e ha sempre portato i baffi. Due virgole sottili, impertinenti, curate con precisione maniacale. Ha affrontato, profugo tra profughi, un esodo umiliante, fatto di spago e cartone, e gatti fuggiti prima dell’imbarco, e oggetti troppo ingombranti da mettere in salvo.
Poi ha fatto il portalettere, per decenni. Impeccabile, preciso, puntuale e rispettato da colleghi, mittenti e destinatari.
Un unico cruccio, tormentava Giovanni: in novantadue anni di vita, un cieco terrore per il vuoto aveva sempre avuto la meglio sulla sua forza di volontà, sul suo coraggio, su quella sua paciosa lucidità, naturalmente votata alla calma e al raziocinio.

Ora affonda le ossa sul materasso di una clinica per lungodegenti. Non si alzerà più. Non tornerà mai come prima.
Le continue ischemie non danno tregua alle sue pupille di fuoco, alla sua memoria, al suo perimetro, a quell’assurda faccenda del tempo. Come fosse quotidianamente sotto l’effetto di un potente allucinogeno, i figli cinquantenni tornano bambini e «Ha mangiato tutto?» e «Hai controllato che non cada dal lettino?». La moglie è ancora viva, giovane e incantevole «Ché avresti potuto fare il cinema, avresti, per quanto sei bella!». La sua sposa è lì, insieme alle sorelle scomparse, alle infanzie perdute, ai commilitoni saltati sulle mine. C’è un tale viavai, in certi pomeriggi!

Ieri, però, Giovanni ha marcato visita. Ha congedato tutti - morti, vivi e agonizzanti - chiarendo che aveva già un impegno.
Ha sorriso, si è vestito ed è partito. Un viaggio incredibile, capace di spazzare ogni incertezza, di redimere qualsiasi industrioso attendente, sobrio portalettere, padre silenzioso. Di cancellare l’onta, lo stigma del fifone.

Ieri nonno Giovanni ha preso l’elicottero e ha volato. Un tuffo senza peso in un immenso, sublime azzurro. In quell’aria sottile e dilatata che pulsa solo tra le cime più alte.
Quando è tornato, posate le cuffie tra la cannula della flebo e il bicchiere sul comodino, aveva un’aria beata. Era felice come un prode falchetto con le ali ancora piene di vento.

A chi lo ha ascoltato, poco dopo l’atterraggio, ha confidato che «Oh, sapessi come è bella, la terra, vista dal cielo!»; ma che no, non avrebbe rinnovato l’avventura, perché «È bellissimo, stare lassù... ma direi che una volta basta!»