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mercoledì 31 dicembre 2014

Tra un'ora


È stato un anno strano. Durante il quale ho imparato alcune cose e, di certo, me ne sono fatta sfuggire migliaia. Un anno di passaggio, fatto di bandiere che garrivano al vento e banderuole piene di fiato. Di parole nuove e cancrene. 
Topodimamma ha voluto sapere - per bene, 'stavolta - come nascono i bambini e ha scoperto il piacere di dire "delizioso".
Ho finito il romanzo. Be', due delle tre versioni quasi definitive. 
Papàditopo ha sorriso spesso, inventato nuovi giochi, portato a casa una mostra difficile.

Ma il Cane A Forma Di Cane (che poi è una cagna) si è ammalato. Oggi la veterinaria (benedetta donna, che suona al campanello il 31 dicembre) ci ha detto che resterà abbastanza in forze per non più di quattro, cinque mesi. E io mi sento già male.
Sono affondate navi, scomparsi aerei, scoppiate epidemie, esplose nuove guerre.
Ho perso fiducia nei lavoratori, fiaccati dalle minacce, dall'inedia, dall'accidia, da portatori insani di camicie bianche e dalle odi al proprio deretano.

Ma ho guadagnato alcuni amici. Altri mi hanno stupito. Altri, qualche volta, addirittura commosso.
Ho mangiato caramelle, fumato a tradimento, sperato di farcela.

Non amo i bilanci, ma ne stilo continuamente.
Non amo il servilismo, ma vi assisto. Ringhiando, magari. Ma a che serve?
Non amo le sconfitte, ma so essere indulgente con la mia fallibilità. Quasi sempre. Spesso. D'accordo: qualche volta (e non se ne parli più).
È stato un anno strano. Sospeso. Forse l'ha deciso Saturno. O la mia indolenza.

Ho la sensazione che, tra un'ora, si affaccerà un anno diverso. Dispari e fertile. E io ci sarò.
Ancora viva.

Dispari e fertile.
Dispari e fertile.
Dispari e fertile. 


lunedì 27 ottobre 2014

Odio ottobre




Odio la tosse secca. Muco debole e fuggitivo che allunga le zampe oltre l'ugola così, giusto per farsi fastidioso oltremodo. Odio nebulizzare le nari per riaprire un minuscolo varco in tutto quell'immobile ottundimento. E odio dormire, in simili condizioni; ché se riposi di lato il naso si tappa da una parte sola, costringendoti a girarti e voltarti come una fettina impanata. L'unica alternativa sarebbe il sonno a pancia in su che, è risaputo, provvede alla par condicio mucolitica. E dormirei pure, in quella posizione, se non odiassi farlo. E se non odiassi la gola secca e riarsa del mattino dopo. Dopo la russata del secolo.
Odio il raffreddore, ecco. Specie quando si sovrappone al ciclo mestruale. Specie quando, quest'ultimo, è già in compagnia di svariate affezioni neurologiche.
Odio il raffreddore, il ciclo e i nervi. E odio le Leopolde. E i neo-yuppies in camicia bianca e lauto conto in banca, amici di scrittori furbi, divenuti ricchi spacciando sogni di gloria. E assenti, che fa più fico se emozionano a distanza. Odio anche le anziane sindacaliste che mi rendono difficile spiegare ai colleghi di lavoro che il sindacato ha ancora un senso, che s'ha da fare, che l'individualismo è una piaga insopportabile. E odio pure spiegare che l'individualismo è un boomerang e che avevano ragione Tozzi, Ruggeri e Morandi: "tanto, prima o poi, gli altri siamo noi".
Odio il metodo al servizio del dolo. Boffo o non Boffo, ti licenzio e non ti reintegro. Ché togliersi un rompiballe dai piedi, sborsando poche migliaia di euro, è comunque una forma di investimento. Odio le minacce velate e quelle svelate. Odio gli abusi di potere e gli scacchi di un colore solo. Odio gli slogan, le parole che sanno di muffa, ma pure quelle troppo, troppo nuove. Così nuove da suonare ottocentesche. E odio il bue che dice cornuto all'asino. Tacesse, porco cane! Che è quasi ora di alitare sul rinato bambinello e poi vediamo se non gli serve, il supporto del bistrattato ciuccio.
Ecco. È semplice, in fondo.

Odio ottobre. E oggi è ottobre.

E ho il raffreddore, il ciclo e i nervi.

lunedì 13 ottobre 2014

Buh!



I centri commerciali non sono più pieni come uova. Neppure durante il fine settimana. Ma le risorse per retribuire il personale sono poche e i commessi, decimati dalla crisi, annaspano comunque. Quindi, se malauguratamente si è una quota di quella scarsità, lavorare il sabato resta una maledizione. Gli avventori entrano, passeggiano, si lamentano per i chilometri che sono costretti a macinare tra ingresso e uscita e, nella maggior parte dei casi, non comprano una beata fava. Si limitano a chiedere - grandissimi figli di Lapalisse - se quel coso con su scritto "copri-piumino" contenga, per caso, un copri-piumino; o se il bollone giallo sulla padella antiaderente con stampigliato "-10%" implichi uno sconto sul prodotto del dieci per cento. Non sono più clienti, ma frullatori di ammennicoli bipedi, affetti da labirintite e con capacità cognitive degne di organismi mono-cellulari in via di estinzione.

Sabato, io, ero lì. A lavorare, sia chiaro.
Confermato a un marcantonio africano che sì, glielo avrei portato in cassa, il tappeto, stavo giusto issando quei due metri e quaranta di cannone peloso sulla spalla quando ho rischiato l'infarto. Davo le spalle alla corsia principale e, dietro di me, è riecheggiato un barbarico "Buh!". Per un istante, riposta l'arma impropria, ho pensato "Non-può-essere"; eppure lo conoscevo, quel verso. Era la sua voce. La più adorabile. 
Mi sono voltata e, davanti agli occhi, avevo il Topodimamma in carne e ossa. 

Viviamo a una distanza di circa quattro anni luce, dal centro commerciale. In tre anni, non era mai venuto a trovarmi al lavoro. Papàditopo e Nonnaditopo erano a pochi passi di distanza, divertiti, quasi che le loro bocche fossero balconi ridenti, cui affacciare un'anima curiosa di godersi la scena. 
Ho alzato lo sguardo. Marcantonio Africano mi guardava, come a dire "'mbe'?! Non è che adesso mi tocca portarmelo da solo, il tappeto, vero?". Ché mica è colpa sua, se si è scordato di prendere un carrello! Ho raccattato il cannone - spiegando al Topo che sarei tornata in un batti-baleno - trattenendo a stento la tentazione di sperimentare una nuova specialità olimpica: il lancio della comunità acara, imbalsamata nel modello Greta a pelo lungo. Ché il giavellotto, al confronto, è roba per signorine.

Poi, finalmente, ho portato Topo a spasso, in braccio, correndo da tutte le parti, uffici inclusi. Le leggende del Topo Narratore sono ben note, a colleghe e colleghi. E mi è presa la smania di mostrare a tutti che esisteva sul serio quell'essere mitico, mezzo Voltaire e mezzo Piccolo Principe.
Finiti i minuti a disposizione, rubati in modo assai poco ortodosso al turno, ho salutato il papà, la nonna e Topo, sbaciucchiandolo fino a consumarlo. Le ore successive mi sono volate. Ho lavorato serena. Anche se era sabato. Anche se i copri-piumino giacevano nelle debite confezioni e le padelle costavano il dieci per cento in meno.
I due belli, messa la nonna sul bus, mi hanno aspettato, gironzolando nell'area commerciale fino all'ora di chiusura. Siamo tornati a casa insieme e Topo non ha vomitato in macchina, né in autobus. Raggiunta Venezia, abbiamo pure mangiato fuori. Pioveva. Abbiamo comprato un ombrello da un giovane ambulante che cantava.
E io ero più felice che mai. Nonostante i piedi distrutti e le mille sporte cariche di qualsiasi cosa.

Felice come la cosa più felice che possiate immaginare. Per la giornata risollevata miracolosamente. Perché Papàditopo odia frequentare i centri commerciali, eppure ha resistito. Per me. Per farmi un regalo infinitamente grande. 
Perché il "Buh!" del Topo non era mai stato altrettanto spaventoso.
Né mai, prima, altrettanto sublime.

sabato 20 settembre 2014

Funeral party



Gli ultimi quattro gradini del ponte e ho guadagnato le riva che si stende dietro l'abside del duomo. Una stola mi è svolazzata davanti al naso, svelando un crocifisso di legno. Un bacio casto e leggero, posato dal celebrante sulla guancia rigata di una signora. Era viola, la stola. E la signora, bianchissima. Neppure il tempo di dare forma al debito "accidenti" ed eccola lì, la bara. Di un bel noce, levigata, lucida. Scendeva piano verso il guscio della barca, guidata da abili Caronte silenziosi.
Dovevo fare la spesa. Trascinavo un carrettino blu e azzurro attraverso la piccola folla mesta, assembrata a pochi metri dal canale.
Mi sento sempre in enorme imbarazzo compiendo gesti quotidiani e sfacciatamente vitali durante un funerale. 
Ma l'impaccio, d'un fiato, è scomparso, travolto dall'orrore. 
Tre turiste orientali, cinesi o giapponesi o chissà di dove cavolo, sostavano accanto al ferale capannello. Indicavano la barca. E la bara. 
E ridevano
Ridevano, scattando foto ricordo.

Forse credevano che qui fossimo tutti immortali. O che facessimo a pezzettini i defunti e li schiaffassimo nei tramezzini dei bar di piazza San Marco. O che, in una città d'acqua, vigesse l'abitudine di scaraventare i trapassati dalle finestre, attendendo un salvifico splash.

Comprendo lo stupore per la particolarità del servizio funebre. Pur deglutendo un bolo di disgusto, arrivo quasi a capire la foto, ché a Quel Paese uno scatto simile desterà scalpore, probabilmente. Ma nella scomparsa definitiva di qualcuno, nelle lacrime degli astanti, nella compostezza dei becchini, che ci sarà mai, di tanto esilarante?
Avrei voluto schiaffeggiarle. O correre a casa loro e danzare su tutte le sacre olle cinerarie, le lapidi, i roghi catartici.
Non l'ho fatto. Mi chiudeva la Coop.

E comunque è vero, sono la solita polemica: magari quelle tre scimmiette sghignazzanti provenivano davvero dalla Terra di Mezzo; non erano mancanza di rispetto, immoralità, idiozia, le loro. 
Semplicemente, non potevano capire. 
Ché, i cinesi, non muoiono mai.


martedì 12 agosto 2014

Estinzione di un poeta



Nel Settantanove avevo tre anni. Eppure mi ricordo l'uovo, lo sguardo rivolto verso l'alto, poco prima del contatto con Orson e quella meravigliosa tutina rossa con il triangolo argentato, che pareva il mio pigiama di ciniglia.
Quando, al liceo, studiando la storia dell'arte m'imbattei in uno degli infiniti autoritratti di Schiele, non seppi trattenere le risa: anche il buon Egon, come Mork, faceva Na-no-Na-no con la mano. 

Durante una verifica, l'insegnante di lettere ci assegnò il tema da svolgere. Dovevamo scrivere brevemente la trama di un film che ci aveva colpito e approfondire, durante lo svolgimento, gli aspetti psicologici caratterizzanti della pellicola. Quasi tutti descrissero le gesta del professor Keating. Un goal a porta vuota, ecco. l'Attimo fuggente sembrava fatto apposta per folgorare le anime di quindicenni straziati dalla fatica di esistere. Io no. Volevo fare l'originale, tanto per cambiare. E non rivelai mai a nessuno quanto suonasse barbarico il mio, di yawp, quando non c'erano orecchi nei paraggi. Tacqui, ché conoscevo quella fatica più di quanto gli altri sospettassero.
Piansi quando morì Neil e quando i suoi compagni salirono sui banchi. Piansi, in rima con quegli occhi bonari, mentre De Niro tornava catatonico in Awakenings. Piansi per l'infinita poesia di Al di là dei sogni. Piansi quando Patch Adams si mise il primo naso rosso. Piansi allo scoppio della bomba al bar in Goodmorning Vietnam. Piansi persino quando a Mrs Doubtfire andarono a fuoco le tette.
Piansi perché ero una frignona, probabilmente. O forse perché Robin Williams era vero. Niente dialoghi smozzicati ed espressioni da triglia sdoganate dalla fiction italiana, né pose plastiche e aloni fluo da telenovela. Quando recitava lui era impossibile distinguere persona e personaggio. Riusciva a sollevare lo spettatore come un panno sporco e a metterlo in ammollo in acqua saponata, impastandolo e strizzandolo, senza che lui se ne rendesse conto. Alla fine di ogni film si era costretti ad annusarsi, per scoprire un odore nuovo sulla propria pelle, fatto di consapevolezza, di visioni che avrebbero avuto uno strascico, di nostalgia istantanea, di languore.

Robin Williams è morto. 
Pare si tratti di suicidio.

E spuntano come funghi i soliti stronzi. Quelli che devono ribadire quanto sia inopportuna una simile scelta per un miliardario. E, parimenti, quelli che devono spiegarti che anche i ricchi piangono (ma solo dopo aver elencato lunghe liste di problemi legati a droga e alcol).
La faccenda è più semplice: il mondo, tra i tetti e l'erba, fa schifo. C'è chi cerca di cambiarlo come può. Quando si accorge di non riuscirci può decidere di adeguarsi o di darsi alla fuga. Di scorticarsi le nocche contro il muro o mollare la cima. «Ma su, c'è lagggènte, lì fuori!», blaterano i soliti stronzi. Non capiscono che il problema è esattamente quello. Se il mondo fosse fatto solo di tetti, per i sogni ci sarebbe un sacco di spazio.
Ora partirà la rincorsa delle emittenti televisive: faranno a gara per sfornare l'intera filmografia dell'attore. È pure estate, quindi una replica vale l'altra. Ci voleva proprio, un bel lutto corposo, per alzare gli ascolti. 
E io, sciocca, orfana e triste, non saprò far altro che rimpinguare l'audience.

Buon ritorno, Mork. E salutami Orson.

martedì 22 luglio 2014

Gaza, la carta, le baguettes



A quindici anni frequentavo un liceo pieno di gente che, a tutti i costi, sentiva di dover apparire diversa. Dai propri coetanei, dalla prole ordinata e ordinaria che genitori avvocati o impiegati di banca avrebbero desiderato avere. Per non somigliare a chicchessia, gli studenti finivano nel gorgo dello stereotipo del ribelle, sfoggiando infinite paia di anfibi viola, cotonature rasta, padiglioni auricolari sforacchiati senza ritegno, bomber e chiodi da combattimento. Quando scoppiò la Guerra del Golfo, tutti noi implumi boccaloni avemmo un nuovo, ottimo motivo per modificare temporaneamente il look. Ai nostri stracci borghesi, aggiungemmo in massa il bianco e nero - qualche impavido, il bianco e rosso - della kefiah, a sostegno del popolo del Kuwait, annichilito dal dittatore iracheno. Molti ragazzi neppure sapevano dove fosse collocato, sulla carta geografica, quel povero staterello. E neppure l'Iraq, a dirla tutta. Ma il bisogno di cavalcare una causa giusta, di manifestare per qualcosa di più dignitoso della mancanza di carta igienica nei bagni, la necessità di schierarsi con il debole oppresso, la pigrizia di accontentarsi di qualche slogan, bastavano e avanzavano. La kefiah finiva attorcigliata al collo, sfoggiata, mostrata come un vessillo, meglio ancora se in pendant con una copia del Manifesto, che nessuno leggeva, ma faceva un sacco fico portare a spasso come una baguette.
La storia non ci appassionava. E i paesi arabi erano un po' troppo in Africa per destare il nostro interesse. A scuola si arrivava a studiare, e solo all'ultimo anno, la prima guerra mondiale; quindi il '48, con l'istituzione dello Stato d'Israele, rimaneva una vaga eco mutuata da genitori comunisti o poco più. Eppure quel conflitto ardeva, lungo la striscia di Gaza, da quasi un secolo. Ebrei cattivi, arabi buoni. Ebrei ricchi, arabi poveri. Ebrei prepotenti, arabi schiacciati. Il succo era quello. Tutto il resto, navigava in un brodo lento di inutili dettagli religiosi, politici, pseudo-culturali. Africani. 
Non sapevamo nulla e non ce ne fregava un tubo. La kefiah bastava, per mostrarci solidali.
Oggi, quasi venticinque anni dopo, ho imparato a leggere un quotidiano fino in fondo. Ascolto il telegiornale con un orecchio terrorizzato e l'altro sfiancato dall'accidia. Mi documento. Ho persino rivalutato lo studio della storia e ammetto una certa vergogna per quel libro del liceo lasciato pressoché intonso. Non indosso più la kefiah. Prima di smarrirsi durante l'ultimo trasloco, quella che avevo finì a foderare il cuscino della mia sedia da scrivania.
Oggi so quale potere abbia lo Stato di Israele, quanto siano pericolosi e indispensabili i tunnel scavati dai palestinesi per aggirare l'embargo, quanto sia strategico l'Egitto, quanto siano affamati gli Stati Uniti, quanto siano potenti i dispositivi anti-razzo degli israeliani e quanto sia vile, da una parte e dall'altra, l'uso degli esseri umani come scudi, come scuse.
Ma continuo a non capirci nulla.
Non comprendo i cadaveri ammassati. I "civili" plaudenti che assistono ai bombardamenti sgranocchiando popcorn. I bambini che scrivono messaggi sui missili, prima che essi vengano lanciati contro il nemico. Non comprendo il concetto stesso di nemico. Sono confusa, troppo e, come dice il cinquenne Topodimamma, mio figlio, lo sono talmente che "mi fa perfino un po' male il cervello". Forse basterebbe imitarlo mentre, strizzando gli occhi, afferma di mettere in atto la "cancellazione della memoria"; e lo farei pure, se non fossi convinta che il problema sia proprio lì. La storia, al liceo, mi ammorbava, perché mi sembrava uno sterile elenco di date e guerre e nomi di generali. Che si ripetevano all'infinito.
Non capivo, non sapevo che una baguette non è mai innocua.

Topodimamma mi guarda, sbircia la tavoletta tecnologica e mi dice "ma l'hai scritto tu, quello? Tutto da sola, così lungo?", indicando il testo. Alla mia risposta affermativa, spalanca gli occhi ed esclama "Wow!" ché, a cinque anni, già una sola parola di otto lettere è lunghissima. Poi piega un foglio di carta e realizza "il mio aereo da guerra! Wuuum!", ignaro dell'inquietante coerenza. Per fortuna, dopo il primo lancio, ci tiene a chiarire che lo aprirà e lo ripiegherà per farci qualcos'altro, "ché se uso tanti fogli devono tagliare troppi alberi, e poi respiriamo male!"
Hai ragione, Topo: la carta serve. Per i libri, per Il Manifesto, per i bagni.

lunedì 9 giugno 2014

Il domenicale






Caro cliente della domenica,
sarò chiara e onesta sin dalle prime battute: io non ti capisco. Mi sono sforzata, parecchio e con impegno, eppure niente, non ne vengo a capo. Se io vendessi latte e tu avessi, a casa, un figlio denutrito e piangente, se spacciassi pillole magiche e tu soffrissi d’insonnia più di Napoleone, se io vendessi prodotti postali e tu dovessi spedire un’irrimandabile raccomandata, ecco, probabilmente comprenderti sarebbe più facile.
Per carità, non mi ributta prendere undici euro e quaranta l’ora, anziché i soliti sette (scialiamo!) per il lavoro festivo, né raggiungere il posto di lavoro veleggiando lungo strade pressoché deserte, ma spiegami: cosa ti porta, una domenica torrida di giugno, con un’umidità media del novanta per cento e un sole che spacca un’intera cava di pietre, a infilarti in un centro commerciale? Ah, l’aria condizionata, dici. 
Be’, da noi è rotta. Te ne sarai pure accorto mentre, dopo il secondo chilometro di zig-zag tra i divani, la tua fronte cominciava a squagliarsi, gocciolando mestamente sulla camicia grigia, già finemente damascata dal sale della tua povera pelle riarsa. Dunque? Non avresti saputo come domare la brama di possedere un porta-saponetta fucsia? Hai accidentalmente dato fuoco a tutti gli strofinacci della cucina? Ti è finito l’inchiostro della stampante laser allo scoccare della mezzanotte del sabato, ché manco Cenerentola colorista?
Un posto così resiste solo se fa incassi, lo so. E io continuerò ad avere un impiego solo se tu non smetterai di desiderare uno zerbino con i gufi, una tazza che ritrae un ferale cane incravattato o un copriletto tutto rose e lillà. 
E sia, come vuoi. Benvenuto e mille grazie.
Ma un dubbio amletico, chiedo venia, a me resta: perché acquisti la borsa frigo da spiaggia, la sedia pieghevole da spiaggia, il telo-mare da spiaggia, il kit caraffa&bicchieri di plastica da spiaggia e il fine settimana lo trascorri qui?
Ma, in fondo, io che ne so? Magari da noi c’è una specie di buco nero, un magnete settario, che attrae a sé esclusivamente torme di parrucchieri amanti dei gufi; acconciatori senza infamia e senza dimora che al lido ci vanno, eccome. 
Ma solo il lunedì.

domenica 4 maggio 2014

Di fatine, edere e problemi oftalmici




Papà, mamma, Il Topo e La Cana: la famiglia al completo, ieri, è andata in missione. Recuperate le radiografie della Cana, la meta era l’ambulatorio del vecchio veterinario, un omone rude e barbuto che vive e opera - è il caso di dirlo - sulla terraferma. Fatta la visita, in tasca fitte ricette di cortisonici, antiepilettici e complessi schemi di posologie a scalare, i quattro moschettieri hanno deciso di addentrarsi nel dedalo di viuzze disegnato dai banchi del mercato rionale. Tre boxer dieci euro, calzini dell’Uomo Ragno, calzini di un anonimo blu, pantaloni per l’asilo e una cuccia con doppia imbottitura: un buon malloppo, in tempi di crisi. Dopo la sosta al parco giochi, con annesso congruo numero di acrobazie topiche (espletato con fervore tra proboscidi giganti di vetro-resina e metallici anelli rotanti), il drappello ha occupato un piccolo desco all’aperto, per rifocillare stomachi languenti con toast, patate e seppie arrostite.
Siamo rientrati alle quattro, appena in tempo per evitare l’ennesimo piovasco della settimana.


Stamattina c’è il sole. Ho lavato i piatti rimasti nell’acquaio da ieri sera. Poi, con la tazza grande tra pollice e indice, sono uscita nell’orto, a bere il caffè all’aperto. La neve dei pioppi svolazza sin qui. Il fico s’è fatto frondoso: un’armonica cascata verde che manco nell’Eden. Il finocchietto selvatico, vaporoso e profumato, solletica il minuto vitigno di non sappiamo bene quale uva. Le pianticelle di pomodoro sono cresciute di una spanna, a un metro dall’albicocco nano, che produce frutti altrettanto nani, ma succosi e dolcissimi. Gelsomino, passiflora e glicine rivaleggiano sul graticcio del portico, con sommo disinteresse del limone e del melo radicati - noncuranza e arborescenze - nei pressi della vasca dei pesci.

È lì, che mi cade l’occhio. Poco sopra il muretto a secco che delimita il nostro giardino.
Ieri, mentre eravamo in trasferta, le fatine delle cinta, alacremente e in gran segreto, devono essersi date parecchio da fare: tra il nostro rigoglioso fazzoletto di terra e il bigio, lastricato scoperto dei vicini, è apparsa una nuova rete fiammante. Alta, densa, compatta, impenetrabile. Siamo al secondo episodio: il primo, provvidenziale intervento per rimpolpare la recinzione sospettammo fosse stato messo in atto a causa di impudiche vangate a torso incanottato del Papàditopo. Operazioni agricole considerate, evidentemente, ad alto tasso pornografico.
«Così i nostri figli non vi disturbano», ci dissero allora.
Stavolta, l’impegno profuso è aumentato: sulla vergine e smeraldina trama metallica s’è inerpicata, magicamente, un’edera. Un’edera di plastica. Un’edera di plastica che fa molto natura, si coordina adorabilmente con il parquet da esterno e con le zanzariere, e non attira formiche, tutte zampette e antenne nere e cheschifocazzo.
«Così i nostri figli non vi disturbano», ribadirebbero, se fossimo tanto screanzati da dichiarare i nostri dubbi circa l’esistenza delle fatine delle cinta.
Il linguaggio è un fattaccio acquisito, e persino in una casa timorata di Dio la profusione, gridata e costante, di coglioni e vaffanculi si propaga dalle lingue dei padri a quelle dei figli. La prole cui si fa riferimento, per una paletta rubata o un paio di orecchini fucsia sfoggiati con troppa civetteria, sa rendere onore agli insegnamenti genitoriali e farsi molesta anzichenò. Eppure a me continua a risultare difficile credere che, annaffiando una verzura di polietilene, essa possa tramutarsi in una barriera fonoassorbente. Probabilmente, dunque, il problema non è otorinolaringoiatrico, bensì oftalmico. E vai a capire se, in quel povero occhio offeso, si sia infilata una pagliuzza o una trave! 
Questi bravi cristiani non devono essere spiati. E, soprattutto, non devono cadere nella tentazione di spiare, specie i più giovani. Non sia mai che capiti loro di intercettare dell’autentica gioia su volti dichiaratamente miscredenti, di assistere a sregolati gesti di gentilezza, di veder fiorire piante vere, di sapere che ci sono bambini che giocano con il fango senza rischiare la decapitazione, di sospettare che i dogmi possono non essere assoluti. Certe patologie oculari sono contagiosissime, e le fatine delle cinta lo sanno meglio di ogni altro. Per questo, instancabili barricadere, si schermiscono dietro l’allusione a un puerile «Lo facciamo per voi». 
Excusatio non petita, accusatio manifesta, dicevano gli antichi; ma le fatine, da quando la Chiesa s’è modernizzata, non lo parlano più, il latino. 
Poco male, in ogni caso. Quest’estate ci faremo sontuosi bagni nella piscina autoportante in costume adamitico, dopo ogni temporale salteremo nelle pozzanghere di fango più rosei e ridanciani di Peppa Pig, pisceremo sull’erba a favore di vento e daremo il via al più clamoroso campionato mondiale di rutto libero.

E vedremo come se la cavano, le fatine, con malta e cazzuola.


giovedì 10 aprile 2014

A forma di cane




L’ho scelta perché era in una gabbia di due metri per tre. Occhi grandi e lunghe leve, se ne stava zitta in un angolo, circondata da altri esemplari minuscoli e ringhiosi. Era di una magrezza imbarazzante; le si potevano contare le ossa del costato a distanza. Era l’unica a somigliare al mio ideale cinomorfo: un cane a forma di cane. Nera, taglia media, niente eccessi epiteliali, orecchi a strascico, coda mozzata o lingua blu. E, dato fondamentale, muso e sedere perfettamente distinguibili, in quel corpo sottile e nervoso. Aveva circa sei mesi. Così mi dissero, al canile, nove anni fa.
Volevo avesse un nome breve e vitale. La chiamai Zena. Un’eco ellenica e quel tanto di Svevo.
Festeggiamo il compleanno insieme. Torta per me, un ossobuco per lei. 

Il piccolo, interrogato sulla propria famiglia, suole rispondere che, qui, siamo in quattro: lui, mamma, papà e La Zena; e poco importa che, i più, si convincano che Il Topo abbia una sorellina segregata nell’armadio. Dopo cena, infilati nei pigiami e a denti lindi, cantiamo la canzone della buonanotte, storpiando inquietanti faccende di befane e uomini neri, e La Zena è tra i primi cari - destinatari dell’adorato moccioso - a essere nominata.
Quando Il Topo cominciò a frequentare l’asilo, la casa mi apparve improvvisamente vuota: silenziosissima, troppo ampia. Ma Zena sorvegliava le mie uscite e i miei rientri, lappava l’acqua fresca dalla ciotola, zompettava goffamente tra la sala e la cucina, improvvisando spericolati slalom tra le mie gambe. Pareva voler allestire un buffo teatro per farmi sapere che “Oh, bipede cosa lunga! Io sono qui, eh! Mica potrai appellarti a una solitudine inesistente!”

Ora, non si regge sulle zampe. Cerca di raggiungere la porta per sfoggiare, come ha sempre fatto, il consueto campionario di feste; ma scivola, derapa, si affrittella a terra. In quegli occhi sembra di leggere la contrizione. Forse è dolore, ed è impossibile averne conferma, ché non è canide da guaiti sofferenti; forse è frustrazione, per una dignità offesa tanto odiosamente.

Primo veterinario e primo salasso economico. Secondo veterinario (Lo Specialista) e secondo salasso. Di nuovo primo veterinario, per gli esami del sangue e terzo salasso. Entrambi i medici annunciano un’incombente quanto necessaria risonanza magnetica. E sarà il quarto, inarrivabile salasso.

C’è chi mi chiede se io sia pazza: “Tutti quei soldi per un cane?”
Io mi volto, faccio spallucce e invoco tutti gli dèi della sacra pazienza. In fondo, il dubbioso di turno ignora per definizione, no? Non sa che, questo, non è un quadrupede qualsiasi.
La Zena è una di noi: un cane a forma di cane.

lunedì 17 marzo 2014

Un euro




Era venerdì. Viaggiavo sul solito diretto delle otto e diciotto, con il naso tuffato tra le pagine di Saramago. 
Il ponte delle Guglie alle spalle, appena imboccato il tratto di canale che bagna Riva de Biasio, il brusio assonnato delle comari, in un istante, s’interrompe. Un uomo, quarant’anni e una fitta barba scura, si alza a stento dal sedile riservato ai disabili e alle donne gravide. È alto. Con il capo sfiora il tetto dell’imbarcazione. Sembra guardare un punto lontano, perso oltre le lastre luride dei finestrini. Prende fiato e si rivolge ai passeggeri: «Signori, scusate il disturbo,» dice, «mi dispiace importunarvi, ma ho bisogno del vostro aiuto. L’equipaggio mi ha spiegato che non potrei farlo, ché rischio una multa. Rispetterei questa regola, se potessi, ma sono costretto a infrangerla... ho perso il lavoro e percepisco una pensione d’invalidità di duecentocinquanta euro al mese. Non so come acquistare il cibo. Vi chiedo se potete darmi qualcosa, prima di scendere. Nessun obbligo, ma vi prego: se deciderete di regalarmi una moneta, cercate di non farvi vedere: l’ho promesso al capitano. Vi ringrazio. Scusate ancora.»
Il silenzio pare una nuvola bassa. Una di quelle che lasciano intatte chiome e radici degli alberi, per fagocitarne i tronchi. Dei passeggeri, si muovono i capelli, solleticati dalla brezza primaverile; e le dita. Alcune corrono a intrecciarsi, altre a scorticare pellicine intorno a lunette sbiancate; la maggior parte, a pescare portafogli dalla borsa, dallo zaino, dalla tasca dei jeans, schiacciata tra sedere e sedile.

Gli ho dato un euro. Mi ha ringraziato. Mi ha sorriso. Mi ha augurato una buona giornata. Sono scesa dal battello e non riuscivo a deglutire. Ho chiamato il consorte e gli ho raccontato tutto. E si è parlato di cause ed effetti e derive. E non riuscivo a deglutire. Sono salita sull’autobus. Un minuto prima di partire, si è riempito di studenti. Giovani musicisti che parlavano in inglese, incastrati tra custodie vezzose e brevi di violini, austere e ingombranti di contrabbassi, lievi e sottili di flauti e clarini. Mi sembrava di essere stata catapultata su un altro pianeta. O negli spazi bianchi tra le righe più annichilenti di Kafka. E, ancora, non riuscivo a deglutire.
Ho prenotato la fermata Sansovino. Sono sgusciata dalla massa di occhi grandi, spartiti e fermagli adolescenziali per guadagnare il marciapiede. Ho raggiunto l’auto. Messa in moto e innestata la marcia. Sono riuscita a inghiottire una compressa di saliva, ma solo dopo aver pianto un po’. La giusta quantità di lacrime, funzionale alla dissolvenza parziale del groppo.

Stavo andando a lavorare. Io ce l’ho ancora, un impiego. 
Vendo aria fritta a signore danarose e annoiate, che chiedono consiglio per abbinare il tappeto al divano, mentre sbuffano e picchiettano le unghie su superfici a caso. Sbuffano perché aspettano più di quanto ritengono sia appropriato, per l’imballaggio di un paio di abat-jour e, per ingannare l’attesa - cagionata dalla manifesta inettitudine della sottoscritta - mi raccontano quanto sia seccante riarredare un appartamento a Venezia, specie se non si riesce, entro i termini dettati dalla tabella di marcia, a disfarsi dell’inquilino che ne occupa i locali. Non annuisco. Nemmeno mi sforzo di fingere: non ho gomiti solidali da far schioccare contro i loro.
«Che cazzo ci faccio, qui?» mi chiedo, Mantra interiore e muto. «Ti ci dovresti arrotolare dentro, al tappeto, e poi buttarti nel primo fiume, stronza» sentenzio. Sempre nella mia testa, sempre in silenzio.

La nuvola bassa mi è rimasta attaccata al cappottino verde. Mi sfuggono le dinamiche dell’ineguaglianza e il peso di quello che è scomparso: il perimetro di ciò che, dai capelli alle mani, fa della gente ciò che la gente è. O è diventata.

Un euro. E non ho risolto niente. E ho avuto una pessima giornata. E non so dove trovare labbra e denti compiacenti da incollarmi alla faccia per il prossimo turno, per il prossimo viaggio, per il prossimo anno.
Non riuscirò mai più a deglutire.

giovedì 27 febbraio 2014

Solo chiacchiere e imperativo




La visita chirurgica di controllo ce l’ho alle undici e trenta. Bene, c’è tempo. Faccio il bagno, abbandono la vasca con una certa riluttanza, mi vesto e asciugo i capelli. Alle dieci meno un quarto esco di casa. Nella sporta appesa al polso sinistro giace il costume da Superman per Topodimamma. Avevano la festa in maschera, oggi, all’asilo. Ma sono una genitrice distratta e mezza orba e no, il cartello non l’avevo visto. O l’ho visto e non l’ho guardato. O l’ho guardato e non l’ho letto, e se preparate ‘sto cavolo di rogo ad arte, mi ci sdraio su per lungo e la finiamo, va bene? Il piccolo, inguainato nella pingue, eroica tuta blu e rossa, è felice. Dei suoi muscoli posticci, della cintura gialla, di non essere più diverso dagli altri, come gli era capitato da tre quarti d’ora a questa parte.

Varco l’ingresso dell’ospedale che non sono neppure le dieci e mezza. L’infermiera a guardia degli ambulatori mi conferma che sì, devo pagarlo, il ticket, ché i trenta giorni dall’intervento sono trascorsi e la pacchia delle visite gratis è finita. Torno al pianterreno. Meglio evitare la cassa automatica dalla parte del Pronto Soccorso, penso, visto che prima c’era una coda da formicaio. E poi, penso ancora, nell’atrio vicino al patio ce ne sono due; si farà più presto, no?!
Ottimo, sono entrambe operative, ri-penso, e la sala è vuota. Davanti a me ci sono soltanto un signore che pigia tasti virtuali sul monitor a sinistra e una signora, a destra, che sfila impegnative dalla borsa a ciclo continuo; per un istante mi viene il sospetto che, in quella finta Calvin Klein, ci sia un allegro chirurgo grafomane in carne e ossa.
Io attendo, due passi indietro, sulla piastrella perfettamente in mezzo ai due sportelli automatici.
Il digitatore a sinistra ritira la ricevuta e se ne va, mentre la donna a destra pesca ancora dalla solita zip. Mi avvicino al monitor libero sbirciando l’ombra di una tizia, capitata lì chissà come, farsi inspiegabilmente sempre più ampia.
«E ciò! Xe rivada éa, sa!» strilla la fonte dell’ombra a una seconda obesa fonte, squacquarata su una povera sediola.
«Scusi, guardi che toccava a me...» replico io.
«No, cara! Éa gèra in cóa su ‘staltra machineta!»
«Sì, d’accordo, mi sono leggermente spostata dal centro, perché pensavo che la signora avesse finito, ma...»
«E de qua ghe g’ero mi!»
«Ma io ero qui dentro prima di lei! Si seguirà l’ordine di arrivo, no? Cosa cambia quale sportello si sia liberato, nel frattempo?»
«Lei è una maleducata! Se i faxesse tuti cussì!»
«Io, sarei maleducata?! È lei che sta strillando... per nulla, poi!»
«Io ero qua prima!»
«No, guardi: qui dentro, oltre ai due signori che già pagavano i ticket, c’ero solo io.»
«No xe vero!»

Nel frattempo, rapida e indolore, termino l’operazione telematica. Mentre estraggo la ricevuta dall’apposita boccuccia rigida, Fonte D’Ombra continua a blaterare, con un tono di voce sempre più stridulo e aggressivo.
Mi volto verso il latrato. Fisso gli occhi di quella strana bestia con il piglio più fiero e minaccioso di cui dispongo.
«Lasci perdere,» ringhio, «ha fatto la prepotente per niente e, per di più, con la persona sbagliata.»
«Tanto ghe tornarà tuto indrìo!» mi risponde, novella Cassandra in salsa veneta.
«Togliti-di-mezzo-ragazzina.» sibilo. Ho così tante fiamme nelle pupille che, per spegnerle, servirebbe una cisterna di collirio.
«Ah sì?» fa quella, «Allora sa che cosa le dico?»
«Cosa?»
«Vadi a fare in culo, le dico!»

Ebbene: non ci ho più visto. Ho sferzato la stronzetta con un’ala del giaccone per liberare il passaggio, le ho sputato in faccia la risata più sarcastica del creato e ho preso la porta, ululando che manco un lupo delle steppe. Cosa le ho gridato?
«Si dice vadA, a fare in culo! VadA, con la A, cazzo! L’imperativo, testa di rapa! Terza persona dell’imperativo, porco cane! VadAAAAA!»

La visita l’ho fatta. Alle undici e trentadue. Non c’era il solito chirurgo. Il sostituto era il primario. Cordiale, preciso e persino scherzoso. Aveva una mano di piuma, e pure inguantata, in senso lato. Non ho sentito nemmeno un po’ di male. Mentre uscivo dall’ambulatorio, una volontaria dell’AVAPO mi ha regalato una caramella. Al pompelmo rosa. 
Buonissima, alla faccia di Cassandra.


lunedì 3 febbraio 2014

Giovanni elicotterista



Ha vissuto una guerra, è stato fatto prigioniero dai francesi e dagli inglesi, ha imparato, ben presto, a stare lontano dal fischio delle bombe e dalle sigarette; e a smontare e rimontare un’auto, abilità assai apprezzata, in un attendente. Ha avuto quattro figli e ha sempre portato i baffi. Due virgole sottili, impertinenti, curate con precisione maniacale. Ha affrontato, profugo tra profughi, un esodo umiliante, fatto di spago e cartone, e gatti fuggiti prima dell’imbarco, e oggetti troppo ingombranti da mettere in salvo.
Poi ha fatto il portalettere, per decenni. Impeccabile, preciso, puntuale e rispettato da colleghi, mittenti e destinatari.
Un unico cruccio, tormentava Giovanni: in novantadue anni di vita, un cieco terrore per il vuoto aveva sempre avuto la meglio sulla sua forza di volontà, sul suo coraggio, su quella sua paciosa lucidità, naturalmente votata alla calma e al raziocinio.

Ora affonda le ossa sul materasso di una clinica per lungodegenti. Non si alzerà più. Non tornerà mai come prima.
Le continue ischemie non danno tregua alle sue pupille di fuoco, alla sua memoria, al suo perimetro, a quell’assurda faccenda del tempo. Come fosse quotidianamente sotto l’effetto di un potente allucinogeno, i figli cinquantenni tornano bambini e «Ha mangiato tutto?» e «Hai controllato che non cada dal lettino?». La moglie è ancora viva, giovane e incantevole «Ché avresti potuto fare il cinema, avresti, per quanto sei bella!». La sua sposa è lì, insieme alle sorelle scomparse, alle infanzie perdute, ai commilitoni saltati sulle mine. C’è un tale viavai, in certi pomeriggi!

Ieri, però, Giovanni ha marcato visita. Ha congedato tutti - morti, vivi e agonizzanti - chiarendo che aveva già un impegno.
Ha sorriso, si è vestito ed è partito. Un viaggio incredibile, capace di spazzare ogni incertezza, di redimere qualsiasi industrioso attendente, sobrio portalettere, padre silenzioso. Di cancellare l’onta, lo stigma del fifone.

Ieri nonno Giovanni ha preso l’elicottero e ha volato. Un tuffo senza peso in un immenso, sublime azzurro. In quell’aria sottile e dilatata che pulsa solo tra le cime più alte.
Quando è tornato, posate le cuffie tra la cannula della flebo e il bicchiere sul comodino, aveva un’aria beata. Era felice come un prode falchetto con le ali ancora piene di vento.

A chi lo ha ascoltato, poco dopo l’atterraggio, ha confidato che «Oh, sapessi come è bella, la terra, vista dal cielo!»; ma che no, non avrebbe rinnovato l’avventura, perché «È bellissimo, stare lassù... ma direi che una volta basta!»

sabato 18 gennaio 2014

Remissiva




Ieri ho rimesso. Ho vomitato, non ri-attribuito a chicchessia debiti di dubbia natura, ché ultimamente aspiro alla santità, sì; ma paterna e divina, ancora, non mi pare d’esserlo.
Una nausea cattiva, stringente, correva tra lo stomaco e le vertebre come un bufalo ansioso colto da labirintite. E, all’orizzonte, niente Due Calzini né Kevin Costner nei panni di John Dunbar, con i baffoni parecchio statunitensi o bardato da sioux, ché come Balla Coi Lupi quello lì, quando s’impegna...
Io, manco a farlo apposta, assomigliavo anzichenò a Mary McDonnell, in versione Alzata Con Pugno: selvatica, puzzolente, raggomitolata e scarmigliata come da copione. Solo che di fronte a me non c’erano laghetti o praterie, ma una ben più prosaica tazza del cesso, in soave porcellana bianca.
Al posto del lupo con le zampe nivee, c’era Il quasi-cinquenne Topo, da tenere giù, al piano di sotto, onde evitare che lo spettacolo di mammà-Linda Blair potesse inquietarlo (una digressione è concessa, se c’è di mezzo L’Esorcista).
Al posto del tenente Dunbar, c’era il consorte; uomo assai meno insipido e quattro spanne più fascinoso del Kevin. Fascino del quale avrei potuto godere appieno, se la mia faccia livida non fosse rimasta parallela al pavimento, incorniciata dalla tavoletta del wc, per quella gioiosa mezz’ora.
Trattenendo Il Topo, è venuto più volte a controllare come stessi. Ha tirato lo sciacquone quando non riuscivo a sollevare il braccio. Mi ha massaggiato una spalla e, per il breve istante in cui sono riuscita a sbirciarne lo sguardo, pareva pensasse: “E l’operazione, e il ciclo, e l’emicrania, e il vomito... oh, mia schifezzuola adorata, non è che aspireresti a una sciatica carpiata? A un bel colpo della strega a tradimento? E un bel fuoco di Sant’Antonio, niente?!”
Appena lo stomaco è parso quasi stabile, mi sono bevuta l’anti-dolorifico magico, sciolto con cura in due dita d’acqua dal Fascinoso.
Al grido “Nimesulide: santo subito!”, ho raggiunto il letto strisciando, più piatta degli indiani di vedetta.
Nanna alle nove, come non capitava da anni; e senza cena, contro ogni plausibile effetto pseudo-Lavazza. 
E ‘fanculo al chirurgo, al bruciore, al detergente sbagliato, ai gradi di gravità ch’erano quattro e non due, alle mestruazioni assassine e alla fotosensibilità. E pure alle praterie del Texas, va’.


sabato 11 gennaio 2014

ma la scia




Mondare. A questo, tendevo. Nettare la superficie della mia nuova veste e ornarla del buon odore chimico di un non-sapone. Sfregare, solcare la pelle con le unghie, risalendo lungo le tracce brune, per ridare fiato ai pori, alle cellule ancora vive sotto la coltre immobile, sterile, mischiata a quella colla senza più garze cui aderire. Trasformare la terra nera in una nuova schiena, un nuovo polso, nuove coste in bella evidenza.
Ho rimosso i medicamenti, l’ovatta, la mezza valva di un elettrodo, megafono ormai muto del toracico, chirurgico jazz, ch’era sfuggito allo strappo dei cavi. 
E tutti a mimare il dolore! E tutti a lasciare impronte, affinché sia possibile allestire qualche nostalgico dejà vu.

Un catino, colmo di bianco brillante. E quel tanto d’acqua per diluire. E un cucchiaio di legno, di quelli che non si usano più, per miscelare in profondità. E una pennellessa, ampia e con l’impugnatura di legno, per non scivolare.
Ridipingere ogni parete con cura, attenti a non graffiare il muro, a non sbavare, a seguire la direzione della luce. Una mano. Due, Tre. 
Tutte quelle che servono per annullare l’alito degli spiriti; gli spettri albini di cornici, armadi e sofà, impressi su facce e tramezzi caffellatte. Sospesi da anni, in un’infinita posa B di una reflex analogica.

Mondare. Riempire i polmoni.
Fare un bagno dopo due giorni dalle dimissioni, ché non è il male, a fare male, ma la scia.
E infilare la testa sotto il pelo della schiuma, per qualche secondo, mentre l’alito d’etere, la tintura di iodio, l’adesivo nero dei cerotti, finalmente, se ne vanno.