non leggere









lunedì 28 gennaio 2013

Altro che Proust!




È fredda, la pioggia di inizio anno. Le lettere di questo gennaio paiono spugne intrise d’acqua, strizzate di continuo sulla terra gelata, sugli ombrelli, sui cappelli cerati dei pescatori. Ma ieri, una domenica di tregua, il sole c’era. Nemmeno troppo pallido o tiepido, a onor del vero. E allora gita, eccheccappero!, ché non se ne può più d’inventar giochi da interno per adeguarsi alle inesauribili energie del quattrenne di casa.
Traghettati i sei piedi e il monopattino dall’isola a Venezia, abbiamo aggirato l’orda barbarica dei turisti - già stracarichi di coriandoli e idiote espressioni carnascialesche - infilandoci in calli segrete, vie di fuga sconosciute, sentieri con i masegni meno consumati che altrove. Poi, come per magia, ecco apparire la Riva degli Schiavoni, ammollo nel tramonto. San Marco è già alle spalle, siamo salvi.
Tre lunghi ponti. Le piccole luci colorate si fanno brulicante tripudio stroboscopico. Il piccolo salta come una palla di gomma; incapace di contenere l’entusiasmo tra scarpe e berretto, ha bisogno di allungare la verticale, di issarsi ad altezze adeguate alla trepidazione ludica per eccellenza: l’attesa del primo giro.
L’ultima giostra, ciliegina su una torta di meccaniche curiose, gridolini infantili e profumo di frittelle, gracchia ilare accanto agli autoscontro “dei grandi”. È esattamente come la ricordavo. La belva è dello stesso identico verde pisello, mostra il solito sorriso beato e l’occhio estatico da abuso di LDS. Ci sono i vagoncini, c’è il rosso frutto proibito, c’è il questuante minorenne imbronciato che raccoglie i gettoni dalle manine tremanti. Topodimamma trilla alla partenza, spalanca gli occhi alla prima curva e, lungo la discesa spericolata, quella che “guarda-qui-come-va-veloce!” ride a tutta bocca sputando fuor di sé, insieme a un enorme bolo di allegria, un più che legittimo pizzico di fifa.
La felicità diventa solida, quando t’investe una simile onda di giubilo; lui si diverte, e ogni istante si fa paradiso. 
E comunque sì, lo ammetto: andare alle giostre con un figlio piccino è una trovata diabolica, ché non credo esista scusa migliore per riuscire, dopo almeno un trentennio, a farsi un giro - l’ultimo, promesso! - sull’adorabile Brucomela.

giovedì 17 gennaio 2013

Chewingum blues



L’occupazione, quest’anno più che mai, pare un chewingum: una robaccia sintetica da non ingerire, ma che si allunga, si lascia plasmare ed è perfetta per ruminare, restaurare l’alito e riempire la bocca di qualcosa. Impastato dalle solite lingue raspose, tutto quell’ipotetico lavoro - ossimoro per sofisti? - pare traboccare oltre i denti sbiancati di glauchi colletti. E sono zanne aguzze, le loro, affilate come asce da quercia. Autobus rivestiti, cartelloni seipertré, manifesti da marciapiede, volantini distribuiti - ne dubitavate? - da volontari (pronti all’agguato dietro ogni angolo di strada), da giorni mostrano incisivi e canini a profusione; accanto a simboli più o meno convincenti, corredati da slogan ruffiani, facili, italianissimi.
Poi c’è l’impiego, quello vero. Che manca al trentasette per cento dei giovani. Che, quando c’è, si fa flessibile, elastico, poco o per nulla retribuito, a tempo, doppio, triplo, carpiato; persino mortale, giusto per non farsi mancare niente. Un lavoro da proteggere e conservare anche quando scapperebbe di cantare un blues, facendo tintinnare la catena alla caviglia; da tutelare dai monsoni della crisi, da salvare a qualsiasi costo, magari sventolando antiche, solidali bandiere, per sentirsi rispondere “Be’, dammelo più avanti, il modulo. Magari mi c’iscriverò al sindacato, prima o poi, se ne avrò bisogno”. 
Il morbo si è insediato. Ha attraversato la pelle dei sudditi, rendendo l’espressione dei loro volti del tutto simile a quella del faraone. E non c’è richiamo alla coscienza che tenga: è impossibile seminare bulbi di gladioli nel deserto.
Le braccia lungo i fianchi, torno sui miei passi, ad auspicare una reale discesa in campo della vetta piramidale; un bel venti-acri coltivato a patate, possibilmente. 
Intanto me ne resto qui, davanti a un seipertré che mi spiega come dilatare meglio i pori, a rileggere 1984, di quella buon’anima di Orwell, sperando di tenere vivi gli anticorpi.