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martedì 29 maggio 2012

Troppi porcellini




Al piccolo piace la favola dei tre porcellini. Se accompagnata da debito motivetto disneyano, meglio ancora. Ogni santa volta, il più che legittimo quesito scaturisce spontaneamente dalle labbra treenni: «Ma pecché il pimo poccellino fa la casa di paia, ch’è tutta leggera e il lupo la soffia via? E pecché il secondo poccellino la fa sciolo di legno?»
Gli rispondiamo che è la pigrizia, il problema. E che il secondo è un solo po’ meno poltrone del primo. «Un po’ pigo e un po’ no, mamma?».
Esatto.
Dopo un terremoto è la paura, a farla da padrona. Si chiudono le scuole, gli uffici pubblici, persino le fabbriche. Appena l’allarme rientra, però, è necessario rimettere in moto la macchina, far ripartire le attività, dare al lavoro il ruolo di catalizzatore. Per il coraggio. Per la ricostruzione. Per non mortificare ulteriormente i processi economici.
D’accordo. È comprensibile. Ma cosa succede quando la terra trema ancora, di giorno, alle nove del mattino di un qualsiasi martedì?
Capita che capannoni indebitamente autorizzati ad aprire se ne vengano giù come castelli di carte. E capita che, intrappolati in quei castelli, non ci siano principesse isteriche dalle lunghe trecce, ma operai. Tute blu mal pagate, spesso assunte in nero, disposte a rischiare - ché la crisi è crisi, e non c’è spauracchio tellurico che tenga.
Non si muore per un sisma di questa portata. Si muore per l’indecenza degli affaristi, per l’approssimazione dei tecnici, per l’indifferenza di chi va, vede e tace.
Vorrei tanto vederli in faccia, i porci a capo di quelle aziende. Per spiegare loro che persino un assiduo frequentatore dell’asilo sa che le fabbriche non si costruiscono con paglia e legno.

giovedì 24 maggio 2012

Essere. O non essere.




Ero al liceo e, nella mia stanza, ogni superficie verticale era ancora soffocata da un’orrenda carta da parati rosa antico. Ci ho dipinto sopra, ci ho sbattuto contro una quantità improbabile di poster di calciatori e musicisti, ci ho scritto. Oh, grana e grammatura erano perfette, per la collezione di Tratto Pen che avevo nel cassetto! Moniti di poeti, testi di canzoni, appunti per non scordare un pensiero in volo radente. 
Mi perseguitava una parola. Scrissi anche quella, inclusa tutta la sbobba che recitava il dizionario, perché non riuscivo a impararne il significato. 

Ontologia: dal greco òn, il cui genitivo è òntos, participio presente di êinai (essere); insieme a logia, che sta per lògos (discorso, dottrina). Scienza dell’essere, dottrina sull’essere in quanto tale, nonché relativa alle sue categorie fondamentali.

Bene. E che diamine è un ente? Sì, bravi, l’INPS... non parlo di quel genere di ente, ma di "ciò che è qualcosa di esistente o di possibile (in opposizione a ciò che non è)". L’insieme degli enti costituisce l’essenza (scoperta, l’acqua calda?) che, secondo Aristotele, significa "ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa" e sta quindi a indicare quelle determinazioni di un ‘oggetto’, specificate nella sua definizione, che ne costituiscono e determinano la natura.
Tutto chiaro, fin qui?

Io sono
Io sono e, in quanto esistente, potrei ritrovare il mio nome in lunghissime liste di caratteristiche, ascrivibili a decine di categorie diverse.
Ontologicamente parlando, perciò, quando mi definite “cassiera” non siete in errore. Ma è terribilmente divertente vedere le facce che fate quando mi ritrovate al reparto, a sistemare guanciali di fibra d’aloe o aromatizzati alla lavanda. Ed è addirittura esilarante immaginare quali espressioni vi calerebbero sulla fronte, come sipari mortiferi, se sapeste come mi riesce bene la torta al cioccolato, quanti libri lisi e pieni d’orecchie giacciano sulle mie mensole, come mi doni un seghetto alternativo tra le mani, quanti nomi io sappia trovare per definire i sogni belli che aleggeranno, durante la notte, sulla testa di mio figlio.

Ah, dimenticavo! Evitate di filosofeggiare troppo, in uno qualsiasi dei nostri bar. Qui, se l’oste è onto, non c'è Aristotele che tenga: vuol dire che non si lava. Ergo, cambiate bettola, finché siete in tempo.

martedì 22 maggio 2012

Che pizza!




Una cadenza ritmica necessaria, ecco cos’è. Se all’improvviso sparisse, per una semplice distrazione o magari per magia - come il solito calzino nella lavatrice - non potremmo più maledire il lunedì o ingolfarci di cioccolato a Pasqua. Non esisterebbero i cori, in chiesa, allo stadio, nei cortei autorizzati e in quelli abusivi, ché ognuno andrebbe per conto proprio. Nessuna sveglia ci concederebbe altri cinque minuti a letto, prima del caffè e del dentifricio quotidiani. I giornali non si chiamerebbero così, orfani della nozione di giorno. E la notte, per quanto ne sapremmo, potrebbe diventare infinitamente dilatata e nera. I verbi, dieta o non dieta, perderebbero la loro forma ideale; una catastrofe che neppure Moccia sotto LSD saprebbe imitare (lasciando lucchettari compulsivi a chiedersi se, quei tre metri sopra il cielo, sono, saranno, o siano stati davvero tre).
La povera Goggi vagherebbe, raminga, biascicando “Maledetta... maledetta... uff! Quella roba lì!”, giacché la primavera verrebbe tritata in un amalgama indistinto di secchielli e palette, foglie secche e fiocchi di neve. Chi ama la pizza quattro stagioni, tanto per dirne una, dovrebbe arrendersi al disordine stocastico di una capricciosa qualsiasi.
E povero Bergson! Non voglio neppure pensare alla rumba da tomba alla quale sarebbe costretto, se sapesse di una tale sparizione! Quella della pizza? Ma no, che avete capito?! 
È il tempo, il protagonista.
Io ne sono ingorda. Non mi basta mai. Però ne conosco tanti, di spreconi scellerati! Ci sono quelli che si comprano aggeggi improbabili o cruciverba con tripli salti carpiati per “farlo passare” (ma che è, la varicella?!) e, addirittura, degli autentici killer. Quelli che, per esempio, alle nove del mattino di un sabato assolato non hanno di meglio da fare che venire a fare un giretto al centro commerciale. Sono svogliati, incontentabili, frustrati, maleducati. Ammorbano gli addetti vendita, l’ufficio reclami, direttore, vicedirettore, guardia disarmata e noi cassiere con un unico, preciso scopo: ammazzare il tempo. Potrebbero dormire, andare al mare, mangiare un chilo di fragole, ascoltare Bach, giocare a nascondino, dare l’acqua alle piante, festeggiare un compleanno. E invece no. Tutti lì, gli assassini, a polverizzare gli ammennicoli. 
«Bella ingrata!», penserete, «tiri la paga grazie a loro!». Vero. L’odio per il tempo di quei bipedi incoscienti mi dà lo stipendio. Ecco perché detesto i loro volti.
Quasi quanto il mio.

domenica 20 maggio 2012

Tellurica



C’è un motivo per cui, nei momenti in cui mi pigliava la “scipitella”, mia madre mi dava della “scema di guerra, anzi, di terremoto!”. Sono nata nel Settantasei, pochi giorni prima del sisma per eccellenza; e il Friuli, da qui, è distante uno sputo. La terra che sussulta è un’epifania sublime: intimorisce, certo, come tutte le cose che sfuggono al controllo; ma è affascinante, potente, maestosa, nella sua travolgente indipendenza.
È strano. Per spirito di contraddizione, ho sempre opposto al terrore dei miei una certa divertita noncuranza, quanto a eventuali mondani borborigmi: «Eh, l’infarto! Ma su, basta co’sto teatro!» mi affrettavo a ripetere, ridacchiando e voltando le spalle.

Stanotte, alle quattro e tre minuti, ho smesso di fare la spiritosa.

Quella crepa lungo la parete mi pare più larga.
Questa è una casa vecchia, che poggia le fondamenta sulle “brìcole”. Una palafitta che trasuda sale. Una zattera in ammollo nella laguna. Il pavimento è sbilenco e l’anta dell’armadio Ikea sporge più del solito... 
Abbiamo stipato troppa roba, in cima al soppalco che incombe sul lettino del piccolo. E se - magari alle due, o alle tre del mattino - una scossa forte facesse venire giù tutto?
Alle tre e diciotto di oggi pomeriggio il letto ha tremato ancora.

Fuori, nel cielo bigio e carico di pioggia, il solito fiero merlo maschio, geometra nero e leggiadro, disegna spirali auree.
Poi si posa a terra. Scompare per metà nell’erba nuova. Becca e becca e becca. Mi avvicino. 
Sta dilaniando una lucertola.

Neppure fossimo in tempo di guerra.

giovedì 10 maggio 2012

Direzioni



Il cerchio, al primo sguardo, può apparire simpatico. Piano, compiuto, privo di spigoli e asperità. Ma è chiuso, come sa bene Donna Antonomasia. Un circolo autonomo, con un centro che mantiene, tra sé e ogni punto della circonferenza, la medesima distanza. È la chiave del controllo: il perfetto panottico per annichilire l’alterità, ridurla a elemento compositivo, funzionale a un microcosmo sacro, separato, inaccessibile. 
Ed ecco spuntare la linea. Stretta, asciutta, cocciuta. Chissà da dove parte, lei, e dove arriva, soprattutto! Quando essa si accosta al cerchio, viene in contatto con uno solo degli innumerevoli punti sbiechi. Lo tocca, in un minuscolo dove, in un minuscolo quando. Ed è proprio lì che giace l’indicazione sospirata: un cartello d’aria che dischiude una porta nuova, la via di fuga, la falla nel sistema. 
Non prendetevela con me, dunque. Quando abbandono il filo logico che voi imponete, quando scelgo di andare fuori tema, quando rifiuto l’orto perfetto e immacolato del vostro centro, lo faccio per un innato bisogno di trovare la mia strada. 
Se sta stretto anche a voi, quel cerchio, raggiungete lo svincolo. Fate presto, però, ché non attenderò a lungo. Preparerò una valigia leggera, indosserò i sandali di cuoio e, infilata una mela in tasca, partirò. 
Per la tangente. 
Che sarà pure una deviazione fuorilegge ma, cari miei, tende all’infinito!

martedì 8 maggio 2012

Campioni!




Si era a digiuno da un bel po’, noi zebre. A lingua in fuori, abbiamo vagato a lungo per ampie e aride steppe virate al nerazzurro o, peggio, con il cielo tinto di rosso, a far da contraltare alle amabili righe nere. Battutisti scatenati sui social network (una su tutte: “30 scudetti per gli juventini, 28 per la questura”), crisi mistiche ai bar dello sport, infinite code di iettatori, impegnati sino all’ultimo istante, nulla hanno potuto contro l’imbattibilità sul campo della vecchia Signora. 
Lo so, sono una donna, e adulta, oltretutto. Sono perfettamente consapevole di quanto marcio ci sia in Danimarca. Il calcio-scommesse, la Calciopoli tutta - piena zeppa di bande Bassotti, arbitri prezzolati, pay-tv e nandroloni... non vivo sulla luna. Deprime anche me, questo truffaldino, ridicolo circo. 
Ma io sono una tifosa da album Panini, immersa nell’antica poesia del ce-l’ho-manca. Lo zio preferito, gobbo fino al midollo, dopo il “papà” e il “mamma” d’ordinanza, mi ha insegnato a pronunciare la terza parola: “Forzajuve”. I miei tre migliori amici, alle elementari, avevano nomi normali e tifavano per squadre normali, oneste e quadrate: Carlo per la Roma, Sandro per il Como e Mario per il Napoli. Quando la Juve perdeva, andavo a scuola vestita di nero, prona, schiacciata dal nembo del lutto. Qualche volta, persino, rimanevo direttamente sotto le coperte, per non subire l’affronto degli sfottò acidi e compiaciuti dei miei compagni.
Alle bambole e ai giochi pacati e noiosissimi delle bimbe, preferivo la competizione bonaria, robusta dei maschi, tra un fallo da ultimo uomo e una rimessa laterale. La conta tra i due capitani, la lista delle squadre, la speranza di non essere mai l’ultima scelta, che sennò si capisce che sei una pippa con il pallone sui piedi. Il rispetto pesava come piombo, giù al campetto. Eravamo piccoli guerrieri pieni di fiato e fiducia. 

Lo scudetto è nostro, belli miei.
Non rompetemi l’anima: chissenefrega dei quattro bambocci milionari e viziati, che per mestiere corrono, in mutandoni, dietro a una palla! Siamo noi, i campioni d’Italia! Noi che avevamo il poster gigante sopra la testiera del letto, con i bei faccioni di Cabrini e Platini, noi che rosicchiavamo le unghie fino alla carne, per una finale di Coppa Campioni (altro che Sciampionslìg!), noi che, bandiera sulle spalle, pattinavamo lungo il corridoio incerato di casa per un quarto d’ora, dopo un gol di Laudrup.

Si è persino coniata la formula “calcio giocato” per distinguere l’italico passatempo più amato e praticato della nostra storia dalle furbate dei corrotti. Ebbene: che milanisti, interisti, romanisti e compagnia blaterante trascorrano pure il proprio tempo a dissertare su quello che pare a loro.
Da qui in cima, con un sorriso beato stampato sui denti, non ci resta che fare spallucce, girare i tacchetti e continuare a canticchiare “I campioni dell’Italia siamo noooi!”