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martedì 28 febbraio 2012

Biancosa


Quando lessi Cecità di José Saramago ne fui travolta. Il libro perfetto. Una scrittura densa ma agile, ricca e sferzante insieme. Agghiacciante e magnifica. Da brava serial-reader sistematica e compulsiva, dopo un simile, sublime choc, scelsi di affondare tra le pagine del Saggio sulla lucidità. E... come ve lo spiego? Avete presente la sensazione di rivalsa, il delirante orgoglio che vi ha colto quando la nazionale ha vinto i mondiali nonostante la testata di Zidane? Ah, non siete calciofili. D’accordo, allora immaginate Tom che riesce a fare a pezzetti Jerry, per una santa volta, o Paperino che si attrezza con una bambolina woodoo di Gastone, proiettandolo nel pianeta dell’eterna sfortuna, o che non rimanga altro che un’orribile poltiglia del lesto pennuto, sotto il macigno liberatore di Willy coyote. Ci siamo? Bene. 
L’arroganza del potere è una prassi insopportabile, e Saramago ne era profondamente consapevole, suo malgrado. 
Nella capitale innominata di un paese sconosciuto si tengono le elezioni amministrative. Oltre il 70% della popolazione lascia la scheda in bianco. Durante la seconda tornata di votazioni, imposta da governo e opposizione annichiliti, la percentuale sale di tredici punti.
Il governo si auto-esilia. La città, posta in stato d’assedio militare, viene battuta a caccia degli organizzatori della pericolosa insurrezione silente e, in particolare, di una donna. L’unica che, quattro anni prima, non perse la vista durante il periodo di cecità bianca (ecco il richiamo al capolavoro del ‘95) che pare stia cogliendo nuovamente gli abitanti della capitale.

Quando la democrazia esala l’ultimo respiro e il potere viene calcato sul volto delle persone come uno stivale sporco e logoro, ai cittadini non resta che smettere di guardare, per non farsi sopraffare dallo scoramento. E fare una scelta politica, proprio quando la politica del palazzo non ha più alcuna dignità esistenziale. Capite? La gente muore. Viene uccisa, eliminata, rimossa. La gente non deve pensare, non deve decidere, non deve fare scelte che non siano ampiamente previste, pilotate, gestibili. Il gregge deve rimanere tale! Non è che una pecora possa arrogarsi il diritto di mettersi su due zampe e andare in giro a chiacchierare.
Ebbene: di gioiosi ovini con le scatole piene, ne sono certa, qui e ora ce ne sono un bel po’. Quasi un terzo degli italiani non andrà a votare, al prossimo giro di boa. E poi ci sono “gli indecisi” (ah, che pessima categoria!), quelli che si ammaleranno, quelli che scorderanno di andare al seggio o smarriranno la tessera il giorno prima.

Quando si terranno le elezioni amministrative, anche io lascerò la mia scheda intonsa. Bianca. Glauca. Abbacinante. Farò parte del nuovo popolo dei biancosi, consapevoli o semplicemente distratti. Resisterò come posso, attendendo che i miei occhi siano inondati dalla luce. Una luce tanto chiara e forte da abbagliare. Ché sarà populista quanto vi pare, e facile, e noioso, ma è vero che i beceri “eletti” che ci ritroviamo sulla testa, rossi, bianchi, neri, verdi o stellati, sono tutti uguali. Certo, è vero: qualcuno fa più schifo di qualcun altro. Be’, a quell’altro dovremmo dare la medaglia?!
Che affondino nello stesso mefitico fango che producono.

Io metterò le scarpe buone, controllerò di avere i documenti nel portafogli, fumerò una sigaretta nel tragitto tra casa e seggio.
E poi canterò il mio inno al bianco. Come una sposa fiera che abbracci la propria umanità.

lunedì 20 febbraio 2012

Tre anni


Gli davano acqua e zucchero. Avrebbe un nome assai più scientifico, in realtà, ma resta sempre acqua e zucchero. Nel nido di un ospedale come il nostro, di neonati ce ne sono una ventina, mediamente, ogni giorno. E ogni notte. Lui si svegliava, magari dava un po’ di fiato ai polmoni, e loro gli ficcavano in bocca un succhiotto stracarico di quella roba. Ciucciava, a occhi sgranati. Al mattino me lo portavano. Dormiva. Stanco morto. Mi dicevano “Ehi, su! Lo svegli, ché deve mangiare! Ha preso solo venti grammi, all’ultima poppata!”. Seno dolente. Enorme. Di marmo. Tutto latte e preghiere. “Io ci provo, a svegliarlo, ma non c’è verso! Ma dorme, di notte?” Non rispondevano. Mai. Indaffarate come servette invise al padrone, le infermiere fuggivano oltre la soglia della stanza. 
“Vuoi dormire? E va bene, fallo, tesoro mio. Mangerai quando saremo a casa”. Lo appoggiavo sul petto e lo ascoltavo respirare e mugugnare; piano piano, come se servisse a chiarire che, qui fuori, ce n’era davvero un po’ troppa, di luce. E freddo. E cheppallestirumori. 
A casa, niente acqua e zucchero, solo allattamento da record: un’abbuffata ogni quarantacinque minuti. Poi, rutto strabiliante e pisolino. 
Profumava. Un odore impossibile da descrivere. Una spremuta di paradiso, più o meno.

Sono passati tre anni. Ieri ha spento le candeline. È alto un metro e rotti. Ama la musica e ha un incredibile senso del ritmo. È intelligente, gioioso e curioso da pazzi. Dorme quanto deve, anche se preferirebbe rimanere sveglio. Mica ci si può perdere questa enorme, strana faccenda chiamata mondo, no?! Lo imploriamo di tacere, per dieci secondi, una tantum. Non lo fa. I timpani, stizziti, ricordano le antiche ore di silenzio. Tutto il resto, invece, è anima in festa. 

domenica 12 febbraio 2012

One moment in time


È morta Whitney Houston. A quarantotto anni. Le bacheche dei social network esplodono. Video a profusione, lacrime reali (o millantate perché così fan tutti), dissertazioni su talento ed esistenze decadenti, tributi al genio sprecato. Un’orda barbarica di tuttologi pronti a stigmatizzare, sezionare il cadavere, trarre illegittime conclusioni.
E io non ce la faccio proprio. 
Non riesco a fingere che gli infiniti acuti di I will always love you non mi portassero allo sfinimento, né che le sue prove d’attrice mi sembrassero qualcosa di più che insipide furbate da lancio pubblicitario, per questo disco o quell’altro.
Il sottofondo musicale che, perennemente, invadeva lo studio del mio vecchio medico sgorgava, assai copiosamente e a volume sostenuto, da un best-of della cantante. Al giro di boa della seconda ora d’attesa, avrei potuto vestire i panni del serial killer, sterminatore di vecchietti con il naso a rubinetto e la parlantina sciolta. La sola cosa che riuscivo a pensare, era “Sì, d’accordo, sei brava. E sì, hai un’estensione vocale circense. Ma ti vedrei bene in un pentolone, con il collo tirato a modino, tra cipolle e carote, a far buon brodo.”
Aveva quarantotto anni. Giovane, dunque. Anima fragile? Molto probabile, visto che successo, riconoscimenti, pregevoli collaborazioni, un patrimonio da capogiro e folle oceaniche ai live non sono bastati a sfilarla dalla coazione a ripetere, dalla tossicodipendenza, dalla depressione.
Mia madre ne ha compiuti cinquantasei. Meno giovane, altrettanto fragile, bipolare, fuori di testa, tossica q.b. e, più o meno, ancora viva. 
Ma è sempre stata stonata. Terribilmente.
Quindi, come non detto; mi sa che il confronto non si può fare.

martedì 7 febbraio 2012

Deperire ed esperire


È come in-spirare ed e-spirare, immancabile coppia ossigenante - braccia su, braccia giù - di ogni lezione di ginnastica a scuola.
Non amo gli insetti; il mio retino è impolverato, ma praticamente nuovo. Non ho catturato farfalle, ho preso l’influenza. Come? È che ha i fori troppo larghi, quell’aggeggio! Da uno, è entrato il bacillo dell’asilo, meglio noto come “decimatore d’infanti sotto i tre anni”. Da un altro, è passato il morbo dell’uscio scorrevole: si annida nel vento gelido di febbraio, cova nell’interstizio tra le porte semoventi del centro commerciale, si abbatte sulle casse. E sulle cassiere, ovviamente. Da altri ancora, si sono affacciati lo starnuto in sol minore del cliente e “Oh, mi scusi! Sa, i mali si stagione...”, la tosse canina dei nonni nella sala d’aspetto del medico, l’ascensore - per metà carico di germi - al supermercato, la coda in farmacia, sopportata per un’improrogabile astinenza da paracetamolo. 
Oplà!, la generosità delle maglie retiniche, da venerdì scorso ha fatto di me un’ammalata. Un’ammalata curva e dolente, a pochi millimetri dal definitivo tappeto. Sono annientata, come non mi capitava da decenni. 

Quale occasione migliore, dunque, per il mio esperimento? Infilare il termometro sotto il braccio, con il bulbo bene al centro dell’incavo ascellare. Attendere che l’ex mercurio (ché il messaggero dalle ali ai piedi è fuori legge), alchemicamente tramutato in una lega di Non So Che, si sciolga, diluisca, cominci ad allungarsi entro la colonnina di vetro traslucido. Verificare la temperatura raggiunta. 
Trentanove gradi e tre stanghette
Ottimo, ci siamo! Posso finalmente provare l’ebbrezza di stendere pensieri orizzontali in uno stato alterato di coscienza (e senza nemmeno il supporto di additivi chimici). Visioni senza capo né coda. Nausea latente. Sbuffi di colore che scoriandolano ai lati delle ciglia. 
Sembra di stare su un materassino gonfiabile. In mezzo alla laguna. Tra onde fisse, ovattate, congelate in un surreale fermo-immagine. Ha il suo perché, insomma! 
Ogni lettera vergata affoga nel latte del foglio. L’inchiostro svapora, intimamente consapevole della propria inutilità. 
In effetti, non so dargli torto. Non c’è davvero nero che tenga, quando si scrive con la febbre.