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sabato 29 dicembre 2012

Bollywood



Ascolto il tiggì. È quello di Raitre e mi fido. Be’, mi sono fidata spesso, diciamo. 
E mi sa che ho fatto una cazzata.
Ennesimo servizio sulla ventitreenne indiana stuprata dal branco, scagliata fuori dal pullman e, infine, spirata. La chiosa più nera che mai, aggiunge carne al fuoco: ieri, una diciassettenne si era recata in caserma, asserendo di aver subito una violenza di gruppo. I poliziotti l’hanno stuprata a loro volta. 
Ecco. Se fossero le mie figlie, queste disgraziate, credo mi augurerei di raggiungere il comando in un giorno di lavoro asfissiante, in modo che siano tutti lì, pronti a godersi l’odore della propria pelle che si squaglia, mentre io mi diverto a spargere benzina e fiammiferi accesi in ogni recesso dell’edificio.
Per fortuna, però, vivo qui e con un uomo illuminato, capace di lanciarmi un salvagente ogni volta che rischio di affogare in un mare di populismo terribilmente facile. “È un abominio, quello che accade. Ma fa schifo anche la strumentalizzazione che i nostri media mettono in atto. L’Italia ha una questione aperta, con l’India, per via dei due marò... in tutto il Medioriente ci sono situazioni incredibili. Hai presente le donne sfigurate con l’acido? Quando mai ne sentiamo parlare?!”. 
Ha ragione. Quanti stupri sono passati sotto silenzio, sin qui? Perché? E perché l’autobus sul quale è avvenuta la “prima” violenza stava attraversando dei posti di blocco? Quante cose non sappiamo di una realtà così lontana, tutti presi dal giudizio da tasca che ci portiamo sempre appresso?
Noi, con la nube nera del vaticano sulle spalle, un ex primo ministro affamato di ragazzine (e che ha il coraggio di ripresentarsi, come le paste della prima comunione), gente che s’infila in caschi cornuti sventolando bandiere celtiche, manichini che scendono in campo, salgono in politica o svoltano ovunque pecunia li porti e innumerevoli altre esilaranti amenità, dovremmo imparare a fare un paio di cose: capire, aprire gli occhi (il terzo incluso) prima di dare aria alla bocca; e sforzarci di tracciare un perimetro limpido, prima di dare fuoco alle caserme. 

Ho spento la tv. E il tiggì non era ancora finito. 
Sono un'autentica rivoluzionaria da divano.

mercoledì 26 dicembre 2012

Quel che (abbiamo in) resta




È Santo Stefano. La nebbia, ovatta umida e adesiva, se ne sta impigliata tra i tetti da una settimana. Avvolge i nervi, entra nelle ossa, impasta le ciglia in un’unica rima.
Non importa. Se ne andrà, prima o poi.
Come le renne di Babbo Natale, alacri postine divoratrici di carote già rientrate al Polo Nord; come l’olezzo di fritto, beatamente stiracchiato tra i fornelli, o quello del pesce fresco, smalto traslucido per unghie operaie; come la stizza dei parenti, cablata dalle spire di Meucci, arginata a stento dai malanni di stagione; come le infinite cartoline di auguri, virtuali o di carta spessa, ricevute, inviate o mai spedite.
Tutto il superfluo evaporerà di qui a breve, per fortuna.

Restano lo stupore e la gioia del quasi-quattrenne la mattina del venticinque, esplosi nel trillo cristallino “Mamma! È venuto, Babbo Natale! Guarda quanti regali!” e il sollievo dell’amnistia, ché tutti i capricci, evidentemente, devono essere caduti in prescrizione. Resta la commozione, perché accidenti-quant’è-bravo, a lanciare le automobiline da corsa sulla pista! Resta l’ilarità di dichiarate digestioni in corso giacché il piccolo, con il nuovo fiammante arco, scaglia le frecce contro il bersaglio senza arrendersi mai, “proprio come Robin-Rùt!”. Resta il sapore di frutta cotta nello zucchero, mentre lo guardiamo infilzare la tavoletta forata con tutti quei chiodini colorati. Giallo, rosso, blu, azzurro, arancione, verde... piaceva anche a me, alla sua età, disegnare l’arcobaleno con i funghetti di plastica.
Il cielo è strano, oggi. Nonostante la nebbia sia ancora lì, a filare la tela tra i rami spogli del fico, sta piovendo, finalmente. 
E l’arrosto alle mele è quasi pronto.


martedì 18 dicembre 2012

Pufffffff




E poi, qualche volta, succede di accorgersene. Persino a me. 
Già, perché io sono un’idiota doc. Una di quelle che, raccolta una serie di dati, si costruisce un’opinione granitica, e chissenefrega se le informazioni sono parziali o confuse o, addirittura, fraintese. Mi capita di sputare sentenze; e di provare una certa ebbrezza da fiera convinzione di consapevolezza. È come se ci fosse una specie di aerostato, gonfio di gas letale, sul quale issarsi per prendere quota. E salire e salire. E piantare occhi e indice verso qualcosa o qualcuno, mimando pose da irati dèi con l’anatema in punta d’unghia.
E poi Boom!, lo zeppelin si fessura e, in un istante, esplode; ché la caduta ha da essere verticale, rovinosa e storica.
E lo è, per fortuna.
Ho sbagliato. A presumere e prevedere. A stizzirmi e giudicare. A credere di essere nata con le soluzioni in tasca. A presentarmi, con il mio naso all’insù, di fronte a chi, da anni e con la perizia di uno sminatore, si arrovella intorno a infidi gineprai, forandosi le dita, sfilando le vesti all’ennesima tenace spina appena scoperta.
Il contenuto delle mie tasche era un flop. E l’umiltà mi fa talmente difetto che non sono ancora riuscita ad ammetterlo.
Figuriamoci a scusarmene.
Ma provvederò. E capirò che non serve mordersi la lingua, perché non esistono argomenti tabù; solo persone che amano i palloni gonfiati o che, semplicemente, tali sono.
Puffffffffffff.

mercoledì 5 dicembre 2012

Dear Babbo, We have Quellarobalì




Caro Babbo Natale, 
quest’anno la letterina te la scrivo per punti, così magari è più semplice da leggere e trasformare in magia. 
Lavoro al centro commerciale. E no, non cominciamo: non sono una cassiera. La faccio. Produco scontrini insieme alle altre donzelle con la camicia bianca e il muso lungo. Ebbene, We have a dream, dear Babbo, che cercherò di descrivere qui di seguito.
Visto che l’anno scorso non c’è stato verso, questo Natale, se puoi, donaci un cliente che:

1. 
non raggiunga la cassa con l’orecchio fuso al cellulare, impegnato in una conversazione talmente fitta da non riuscire a spiccicare neppure uno striminzito “buongiorno”, mentre noi gli si fa il conto, gli si riempiono le sporte di ammennicoli dorati e lo si manda - sommessamente e sorridendo - al diavolo.

2. 
non chieda, per tutte le stelle del firmamento!, di provare le lucine per l’albero; perché il banco-prova è accanto alla porta d’uscita e una stramaledetta presa di corrente, alla cassa, non c’è. O non si può usare, ché la Grande Distribuzione ci guarda.

3. 
non abbandoni sul tapis-roulant, stizzito, una quintalata di asciugamani rossi da bidet, tutti renne ricamate a punto croce, unicamente perché ci siamo permesse di spiegargli che le sporte le abbiamo solo di carta e costano, rispettivamente, quindici centesimi la piccola, venti la grande.

4. 
non pretenda di entrare dall’uscita perché “ma mi serve solo un set di bicchieri, quello che è lì”, o “ma io sono anziano!”, o “mica devo comprare un elettrodomestico”, o “Ma neanche a Natale, che si è tutti più buoni?”, o “E devo fare tutto il giro?!”. Perché sì, devono farsi tutto il giro. È il primo comandamento di ogni centro commerciale. Anche a Natale. E loro lo sanno. Quindi se lo facessero, il giro. Se non qui, in Lapponia. 

5. 
non faccia il solidale mentre, la domenica del ventitré dicembre, intasa la coda delle cinque con un separa-uova nel carrello - strenna al fotofinish per la zia Norma - dichiarando che “è una vergogna che vi facciano lavorare anche domani”. Tanto glielo si legge in faccia: fosse per lui, trascorrerebbe il pranzo di Natale abbarbicato allo scaffale dei cucchiai, aspettando che qualcuno gli chieda “In cosa posso esserle utile, signore?”, già pronto a gracchiare un sonoro “A-haaammm!”

6. 
non ci chieda consiglio sul colore del mobiletto per il bagno, né sulla panca porta-oggetti con l’effigie degli elfi. Abbia il coraggio delle proprie azioni e se la veda da solo, con la moglie-mastino che lo attende a casa, al varco. Ché noi, il dito, lo mettiamo solo sul touch-screen.

7. 
non chieda se possiamo fargli un pacchetto: non lo facciamo. Ci manca solo quello! E niente perché e percome: dopo nove ore di bip-bip, potremmo anche evitare ogni censura e chiarire, una volta per tutte, che è il sette dicembre e, fino al ventiquattro, ha tutto il tempo di trovare una stronza cartoleria aperta.

8. 
non abbia infiniti natali da raccontare e la lingua sciolta. Ci piace sguazzare nell’ignoranza, specie quando dietro di lui ci sono altre ottantadue persone in fila, capaci di una potenza sbuffatoria pari a quella di tutti i treni a vapore di Ivano Fossati.

9. 
non pretenda, soprattutto un minuto dopo l’apertura, di pagare un addobbo pralinato da novantanove centesimi con una banconota da cinquecento euro. Non siamo gnomi dell’arcobaleno. Non abbiamo trascorso la notte a trasportare carriole di monetume, dalla banca ai nostri cassetti, per soddisfare pazzoidi con un deposito vuoto e un costume da Paperon De’ Paperoni nell’armadio.

10. 
non ci faccia gli auguri di buone feste. Non ci venga proprio, qui, dal quindici del mese all’otto gennaio. Se non può farne a meno, ci pensi intensamente la notte dell’Avvento, mentre trangugia un frizzantino e affonda le fauci nel panettone. E si senta un autentico genio, d’una furbizia da sfoggiare al cenone, per aver snobbato il centro commerciale. Mica è un’abilità comune, in effetti, evitare di rompere le palle a chi lavora. Figuriamoci quelle di Natale.



Tanto lo so: come minimo Babbo non parla inglese, quindi non ha idea di cosa significhi che We have a dream.


giovedì 22 novembre 2012

Carte... scoperte




Suona il telefono. Rispondo. È mio padre. 
Come stai? E il lavoro? E l’acqua, è ancora alta? Certo che i politici son tutti ladri... l’hai sentita l’ultima? 
Chiacchiere sul quotidiano. Il piccolo sta disegnando sul tavolo della sala. Qualche dinosauro “con il pippi”, probabilmente, ché in questo periodo vanno via come il pane. Io sono in cucina. Faccio conca con la spalla per accogliere la cornetta, finché la cicca non è accesa e il fumo esce, placido, oltre la porta che dà sull’orto.
Sento alcuni rumori, di là. La sedia alta di legno che si sposta, piccoli passetti in fuga, la porta del bagno che si apre. Poi acqua che scorre.
Alcuni minuti dopo, la porta sbatte, la luce del corridoio fa click, i passetti si avvicinano. Topodimamma sbuca all’improvviso, con lo sguardo fiero e l’occhio vispo: «Mamma! Ho fatto la cacca! Ma sono stato bravissimo, e mi sono pulito da solo!».
Giubilo! Orgoglio! Stupore! E panico...
«Ehm, amore! Sei stato davvero un fenomeno, ma cosa ne dici se diamo una controllata, laggiù, per vedere se è proprio tutto pulito-pulito?»
Mio padre, in presa diretta sull’evento, se la ride in viva-voce. 
Tornati in bagno, inizio a ispezionare la zona dell’ipotetico patatrack. Ma non ci sono tracce di disastro! Solo una pallina di carta igienica, rimasta intrappolata in quel compatto, adorabile paio di chiappette. Il Topo la estrae bellamente, solleva il braccio in alto ed esplode: «Nonno, guarda qui! È solo una pallina! Hai visto che sono stato bravissimo?!»
Eh, potere del viva-voce: materializza il senso della vista anche senza video-telefono.
Mio padre si sganascia fino alla tosse. 
«Ma allora, furbetto, dov’era, ‘sta pallina?»
«Ma dài, nonno! Nel culo, no?!»
Ecco. Avrei dovuto cedere alla pigrizia, astenermi dal realismo e insegnare a mio figlio che, quello che ha lì dietro, si chiama “sederino”.
E comunque, sederino o culo che sia, è ben aggrappato a una struttura ossea solida e flessibile. E lunga. Lunghissima. Mi è cresciuto sotto il naso. 
E sì, accidenti! È bravissimo.

domenica 21 ottobre 2012

Sassi




Lasciarsi strozzare dal magone, far prevalere l’indignazione - impalpabile, bianca, stoica quanto lo zucchero a velo sulla focaccia bollente, affogare un gesto in un magma collettivo sino a renderlo pappa per palati molli, è facile. Comprensibile, magari; ma vacuo. Sciocco. Roba per gente pigra.
Noi umani, animali dotati - per quanto spesso refrattari - di pensiero, abbiamo comunque bisogno della forza. Di quella linfa vitale che ci permette di compiere ogni atto, ogni movimento. Altrimenti saremmo pietre. Sassi lisci o bitorzoluti, minerali inerti. Il guaio è che la forza può farsi eccessiva. E divenire impeto. Follia; poco conta se opaca o lucida. O violenza. Ché il vigore sa lievitare in pre-potenza. Un dominio inarrestabile fatto di nocche, lame, mutilazioni, fiamme, proiettili. E bicchieri, sempre gli stessi, rotti mille volte, mai sepolti.

Anche le donne sono violente. Alcune sanno scegliere parole capaci di annientare, torturare, annichilire. E mica tutte pesano cinquanta chili, o non raggiungono il metro e sessanta! Ci sono armadi-femmina a otto ante - in grado di abbattere un maschio come nemmeno una mandria di bufali, che non si limitano alle aggressioni freudiane.
Di solito, però, capita il contrario. È lì, il problema. Non nella questione “di genere”, ma in quel necrotico, asessuato “solito”. Ci siamo ridotti a credere che l’imposizione, l’offesa, la ferita, siano pallide tracce della consuetudine. Un’usanza becera, truce. Ma-tanto-poi-passa.
Fino alla prossima volta. 
Perché gli uomini che uccidono le donne sono maschi, certo. Ma anche individui. Persino figli. Di padri con la testa quadrata, forse. E di madri - donne! - troppo impegnate a proteggere giardini di ortiche. 
Il problema è il "solito". Perché anche noi siamo i soliti. 
E le solite.

venerdì 12 ottobre 2012

Gomma



Ecco l’indignazione. La solita, maleodorante muffa di chi simula cecità; che, di quella finzione, pare aver fatto un mestiere. Ecco le voci straziate e gli indici rigidi, puntati contro un poliziotto dai modi bruschi, indecenti. Ecco il caso giornalistico, carogna fumante sulla quale adorano gettarsi le iene della carta stampata - con l’editoriale sentenzioso in tasca, gli zoom invadenti, i canini affilati e coperti di bava vischiosa - acquolina mefitica a contar gli incassi. 
Ecco il folletto dell’oblio che, nel pieno rispetto delle consegne ha sfilato senno e memoria, per l’ennesima volta, dalla testa della gente.

Di figli dalle braccia di gomma è pieno il mondo. Arti elastici, tirati sino a smagliarne la sostanza. È pieno il mondo di ex mogli ed ex mariti che, pur di risultare vincitori, non esiterebbero a strapparle dal tronco, quelle amabili braccia. Perché lo strazio è invisibile, così come gli occhi sbarrati del testimone. Perché da tempo, per quel trofeo indivisibile, è stato fatto spazio sul ripiano più alto delle recriminazioni. Finché i denti del figlio, il volto bocconi contro il suolo, non affondano nella terra. Perché il gioco è irrefrenabile; va portato sino in fondo. Persino oltre il filo bianco che, ferale, si leva dalla candela spenta, muta come non mai. 
O come sempre.
Di figli dalla braccia di gomma è pieno il mondo. Oppure no. 
Ché le case della gente, fatte di mattoni, ipocriti da rouge e noir, silenzi solidi e dissimulazioni, si sa: neppure il lupo più abile, grosso e irsuto, riesce a soffiarle via.

giovedì 4 ottobre 2012

Autumn leaves




L’altro ieri ho comprato i primi cachi. Sguardo al calendario: ottobre. 
È che i ritmi frenetici, le telefonate ferali - raccolte e mancate, i temporali nostalgici e le maniche corte mi avevano distratto. Per carità, l’orecchio già da un po’ poteva dirsi orfano di risate cristalline tutte alito e anguria, del tintinnar di palette e secchielli, di cocchi strillati e brrrip-brrrop di braccioli sdrucciolevoli. Ma me ne stavo lì, ad attraversare le giornate con il foglio dei turni appeso al frigo, i soliti pantaloni addosso, la lista della spesa nella tasca esterna della borsa.
Poi ho riposto i sandali e le scarpe di corda, in favore di calzature chiuse e gommate; ho sfilato dall’armadio la giacca di pelle; ho guardato il cielo abbassarsi, scuro e stellato dall’ora del tè. E oh! Quelle maledette foglie! Rosso, marrone, giallo, arancione... Avrei dovuto capire, no?!
Niente. Non pensavo a niente. Testa svaporata e quotidianità da allestire.
Stamane, lo schiaffo.
“Fa’ colazione!-scappa pipì?-dài, co’sti denti!-lo zainetto è sulla sedia-papà ha già i piedi nelle scarpe...-lo so che c’hai sonno-infila il giubbino!-andiamo con il monopattino?-presto, ch’è tardi!”. Poi, la porta d’ingresso: scatto della serratura, lamento dei cardini, swosh del para-spifferi, luce.
Luce bianca. Diffusa. Lattiginosa. Umida.
«Mamma! Perché c’è la nebbia, stamattina?»
«Amore, dobbiamo farcene una ragione, temo. Siamo in autunno!»
«E perché?»
«Perché tutte le cose finiscono, prima o poi...»
«Come la marmellata?»
«Esatto. Ehi! Corri più vicino al muro, ché non ho voglia di venire a pescarti dal canale!»
«Ma tanto è bassa!»
È vero. Lo scirocco non si è ancora fatto vivo. Salvi dall’acqua alta! Per ora, almeno.
«Nano! Vi-ci-no al mu-ro! Insomma, come te lo devo dire?!»
«In turco, mamma?»

Eh. Mi sa che devo rimettere in moto il cervello. E starci attenta - mannaggia a me! - con ‘sto vizio delle frasi fatte.

giovedì 27 settembre 2012

Il lavoro del cavolo




Il periodo non aiuta. Un tempo esiziale, ragnatela infida appesa tra le foglie brunastre insultate dal vento. E, insieme, contingenza funesta nelle piazze, disertate dai consumatori, consumate dalle suole lise dei precari, dei cassaintegrati, dei disoccupati. Starsene appollaiati sul ciglio di questo abisso è un privilegio. E va da sé: qualsiasi lamento, sputato o sommesso, pare una bestemmia. Io ce l’ho, un lavoro. Un impiego che - addirittura! - non somiglia nemmeno più a un latticino a lunga conservazione: non scade. Giubilo e gioia a profusione, dunque! Eh, più-meno-che-più.
Il guaio è che dovrei avere la mano ferma. Maneggiare la bomba con cura, salvaguardare gli astanti invitandoli ad allontanarsi lentamente, far brillare l’ordigno senza spargimenti di sangue. O di parole riottose. O d’indignazione viscerale.
Con quale coraggio potrei dire a un mancato-pensionato del ‘52 che la permanenza può somigliare a un cappio? O a un neo-laureato con, in tasca, un biglietto per Berlino, che le garanzie, le certezze, la routine, rischiano di trasformarsi in coazione a ripetere?
Non ce l’ho abbastanza di bronzo, la faccia. Nonostante io abbia un odore diverso, una differente fame di luce, una forma tutt’altro che ovoidale: una spirale infinita, frattale, aurea.
Nonostante io sia un cavolfiore, ecco. 
Malamente piantato in un campo di patate.
Stinto. Accerchiato. 
In preda a una nausea furibonda.

domenica 26 agosto 2012

Cambio. Di stagione. Forse.




Il sole, qui fuori, non può dirsi pallido. È proprio sbiadito, sciacquato nel latte o reduce, chi lo sa?, da un tuffo nel grigio-lavato che resta dentro la ciotola per gli acquerelli. Il vento, aspro e bizzoso, spira da Nordest, ma non è ancora bora. Preme gli scuri contro i cardini cigolanti, fa gracchiare l’esile stendino sull’erba, s’infila tra le foglie di ogni albero frondoso in un sibilo gonfio, per annunciare l’arrivo del nembo. A Sud, il cielo azzurro si svena in smagliature mobili, glauche, stracciate.
Stamattina è piovuto. Un temporale, niente di che. Ma quando arriva a fine agosto, i giochi sono fatti. Tocca ricacciare le infradito, mestamente, in una scatola e sfilare dall’armadio una giacca per la sera.

Domani cambierà qualcosa. 
Nel magazzino di un centro commerciale, la merce viene allocata. Non collocata, cioè situata; né allogata, pur restando il luogo, la radice. Ogni oggetto trova un posto per sé, stipato insieme a molti altri.
Mi sento un collo. E non quella porzione di corpo che sta tra scapole e capo, ma uno scatolone, con la sua brava etichetta, in equilibrio sulle unghie metalliche di un muletto. Resto in attesa che chi di dovere scelga il cantuccio più adatto; alle mie misure, al mio peso, alle fragilità che custodisco, ai miei spigoli.
Sono una strenna color avana dalla destinazione incerta. Con il fiato sospeso.
E li odio - oh, eccome, se li odio! - gli istanti prima della tempesta.

giovedì 23 agosto 2012

Che ci vuole?




I medici salvano la vita alla gente, quindi è giusto siano pagati profumatamente. 
Be’, andiamoci piano. Ci sono anche medici che le stroncano, le vite; per distrazione, banali errori, stanchezza o Saturno contro. Eppure nessuno si sognerebbe di dire a un chirurgo: “Sì, ci interessa il tuo lavoro. Operi con cura, rattoppi adeguatamente, ma sfortunatamente non possiamo pagarti. Se ti va bene lo stesso, sei dei nostri, altrimenti va’ pure, tanto c’è la coda, qui fuori, per questo posto”. 
E provate a chiamare un idraulico per una perdita al lavandino, magari di sabato, chiarendo che per risolvere il problema non riceverà retribuzione alcuna. Ecco, nemmeno nel castello di Hogwarts, giusto?!
E allora perché i musicisti che vi allietano l’aperitivo, per due ore di concerto, dovrebbero accontentarsi di una birra e un panino scarsamente imbottito? Perché all’artista che progetta il recupero di una fabbrica abbandonata tocca null’altro che la proverbiale pacca sulla spalla? Perché un giovane regista è costretto a realizzare film a costo zero? E perché - muoiano gli editori e tutti i filistei! - chi scrive deve sentirsi onorato di leggere la propria firma in calce all’articolo che ha sfornato (preparandosi sull’argomento, impiegando tempo, energie, concentrazione) e chissenefrega della solita voragine nel portafogli? Al mio fruttivendolo, dell’onore, importa assai poco. Se non pago il chilo di patate o le quattro melanzane, mi fa un melone così. 
E vabbe’, quanto la fai lunga! In fondo siamo tutti un po’ creativi! Pure io riesco a fare un taglio in una tela, come Coso, Massìquellolì! Che ci vuole?
Ci vuole la capacità di vedere ciò che, ad altri, non appare. Ci vuole passione per il mondo e sfrontatezza. Ci vuole il coraggio di superare i dogmi della propria epoca.
Ma che parlo a fare? Tanto è un fatto: a bocce ferme, son tutti Fontana.


mercoledì 8 agosto 2012

Dopocena




D’estate si usava l’Autan, non ancora in versione a spruzzo, senza alcol, per pelli sensibili o al gelsomino. Era un cilindretto pesante, con la rotella sul fondo che permetteva a un monoblocco giallo dall’odore inconfondibile di fare capolino ed entrare in azione. Ad applicazione effettuata, la pelle - nessun centimetro escluso - rimaneva unta e lucente per ore. Ma funzionava! ché le zanzare erano solo zanzare, mica tigri, leopardi o coccodrilli. 
Il fresco della sera, l’inebriante aroma delle costine alla Festa dell’Unità, la partitella scapoli-ammogliati di papà a sole tramontato, il gelato dopo una giornata di mare, si potevano godere senza incappare in coatte donazioni di sangue ai soliti elicotteri ronzanti.
Quando i miei esaurivano le ferie, trascorrevo un paio di settimane in trasferta. Mi piaceva stare a casa della nonna. Potevo pattinare con i calzini sul marmo scuro della sala da pranzo, giocare con centinaia di elastici raccolti in un cassetto dedicato, colorare con i pennarelli a pancia in giù sul parquet, contare le piastrelle rosa del bagno, ascoltare Superclassifica Show con mia zia, mentre la testa stroboscopica di quel tizio con cuffie e occhiali si agitava davanti al microfono.
Dopo cena nonna usciva sul balcone, pronta al rito serale; io, paperella implume, la seguivo con un entusiasmo e una fiducia assoluti, roba da fare invidia a Konrad. Lei passava le mani sulle foglie nuove di prezzemolo, menta e basilico, controllava il vigore dei garofani, ammucchiava in un angolo i petali dei gerani - ché bisogna stare attenti, sai: macchiano! - per poi allungare la mano fino alla parete tra le due porte-finestre, a caccia del trono. Con delicatezza, trascinava la poltrona pieghevole al centro del terrazzino. Dieci centimetri dal muro, altrettanti dalla ringhiera grigia. Infine, la magia: ben comoda sulla sedia imbottita, aperta e funzionale, nonna appoggiava i palmi delle mani sui braccioli di plastica e rat-ta-ta-tà!, li faceva scorrere lungo il binario dentellato fino a raggiungere la posizione ideale, con lo schienale reclinato e il poggia-gambe sollevato da terra di quasi mezzo metro. Mi prendeva in braccio e il mio naso andava in festa. Gli odori piantati nei vasi, il gelsomino rampicante, le rose e i peperoncini di nonno Gianni, il glicine dell’appartamento accanto, mischiavano la propria scia con il talco Felce Azzurra nevicato con grazia sul collo della nonna e, a me, pareva di stare in paradiso. 
Era l’ora della calma, dell’ozio saggio, del respiro profondo in un tripudio di profumi. Abbandonata sul grembiule a fiori di nonna, chiudevo gli occhi e ascoltavo le cicale. Nulla avrebbe potuto disturbare quella quiete. 
In ogni lieve brezza gonfia di silenzio, persino l’Autan, ancora aggrappato ai peli delle braccia e a quelli delle nari, sembrava avere il suo perché.

giovedì 19 luglio 2012

Inno alla ghiandola




Il supermercato è uno specchio perfetto dei tempi che corrono. Al reparto cosmetici, intere file di braccia metalliche, sottili e cornute, sorreggono ogni ben di dio. Eccole, appese come foglie morte, le solette all’eucaliptolo; giusto un palmo sopra i barattoli di talco del Dottorsciòl, circondati da infinite scatoline di podologici antimicotici e antibatterici. Altre due gracchiate di carrello e ci si ritrova di fronte all’immancabile parata di dentifrici sbiancanti, contro la carie, il tartaro, le gengive retrattili, l’alito mefitico. Se siete donne, vi tocca persino il tour verso l’angolo del pianto, cui dovete recarvi in pellegrinaggio almeno una volta al mese. Lì, ravanerete tra pacchi da dieci, dodici o quattordici tamponi, micro-forati, alveolati, con o senza ali, piccoli, medi, lunghi, extra-flusso - che ci sono ma scompaiono - esterni, interni, con cavatappi, sintetici, ripiegati o distesi e, direttamente dall’ultima frontiera delle scienze assorbenti, dotati di naturactive, dispositivo per il controllo dell’odore (e non si tratta di una minuscola guardia armata da piazzare negli slip). 
Pur non essendo ancora prede, fortunatamente, della sindrome pre-mestruale, potreste comunque avere una questione aperta con le vostre ghiandole sudoripare e aggirarvi, schiave dell’ultimo spot o delle sempiterne pippe bio, nell’area più pericolosa del negozio: la profumeria. Allume di potassio - in grani, blocchetto di pietra, spray - per le fricchettone con la borsa di tela; Altolà-al-sudore per le potenziali vittime di rapina, sempre a braccia alte e ascelle escalamtive; creme anti-traspiranti per chi, i liquidi, vuol tenerseli tutti per sé; nebulizzatori rispettosi dell’ozono per le amanti della natura, ostili agli erogatori troppo aggressivi.
È estate, ci sono quaranta gradi all’ombra e un’afa da bagno turco, ma l’imperativo resta uno solo: vietato puzzare. Gli umori corporali vanno banditi, sepolti, messi alla berlina, ché mica viviamo ancora nelle caverne, per Diana! La prova olfattiva va superata a ogni costo, e guai a voi, se vi si becca con un qualsivoglia alone umidiccio sulla camicia!
Ebbene: dovrebbe esserci una sostanziale differenza tra igiene e follia. O no?
Vi svelerò un segreto. Esiste una cosa magnifica chiamata sapone. Si usa mischiandolo all’acqua e detergendo la pelle abbondantemente. In giro per il pianeta - ci credereste?! - ne esistono interi alberi. Se ne farete uso quotidianamente potrete affermare, senza tema di smentita, di essere mondi, lindi, puliti. Per il resto, fatevene una ragione: siamo esseri umani, fatti per il per settanta per cento di acqua, pieni di denti, piedi, interni-coscia, sebo sul cuoio capelluto. E pare che sudare, per ora, non sia reato.

martedì 3 luglio 2012

Aspirazioni




Com’è liberatoria, la semplicità di alcune parole. In particolare, amo quelle immerse nella funzione che rappresentano, capaci di preservare i dizionari etimologici da pieghe moleste e dita umettate, e in grado di accoppiarsi con altre a loro simili, germogliate sotto il medesimo, salvifico raggio solare. Ecco l’acchiappa-farfalle, il pungi-topo, la lava-asciuga, i perdi-giorno. Probabilmente è tra queste ultime lettere che preferisco sostare. Testa svaporata, iridi vacue, sovra-pensiero latente adagiato su qualche particolare apparentemente insignificante, quotidiano, silenzioso. 
Nella piccola stanza da bagno del piano di sotto non c’è la vasca; neppure il piatto doccia, se è per questo. Ricavato da un sotto-scala, questo spazio è una piramide sbilenca, ma confortevole. Raccoglie i pensieri della sera e gli sbadigli dell’alba. 
Accanto alla tazza, come un fungo, si erge il lavandino. Quasi piatto, minuscolo, bianchissimo (be’, non proprio sempre). Appeso sull’alzata di un gradino di legno, un ampio porta-bicchiere abbraccia, in realtà, un phon color malva. Una mensola d’abete, smaltata di nero, sorregge spazzolini, dentifricio, filo interdentale, lo smeraldo del colluttorio, deodoranti per lui e per lei, l’immancabile confezione di stecchini pulisci-orecchi. La schiena contro le piastrelle antracite della parete opposta, smilzo e glauco, il termo-sifone a tre elementi sonnecchia, ben protetto da un copri-capo umido di spugne abrasive e lucidanti. Ai piedi, invece, sbavato di blu, il gel disinfettante pare un soldato appena rientrato nella seconda linea, vivo per miracolo.
Stamattina niente Settimana Enigmistica, nel momento del bisogno. Ho le palpebre a mezz’asta. Dormito male. Incubi. Caldo-freddo-caldo-freddo ad libitum. E i gabbiani, prima del sorgere del sole, a cincischiare e gracchiare e svolazzare e sbecchettare, così forte da svegliare l’intero vicinato. Saranno riusciti ad aprire il solito sacco del pattume pieno di leccornie semi-ammuffite (i pennuti, non i dirimpettai).
Dicevo: caselle bianche, caselle nere, cornici concentriche e ghilardate? Nel cassetto. Sclere arrossate, pupille fuori fuoco, ciglia impastate dall’elisir di Morfeo, non potrei leggere, neppure a mo’ di tortura. L’occhio però, appannato e liquido, riesce comunque a cadere ad altezza pavimento. Anzi, un po’ più su, a dire il vero: un grosso, lucido scarafaggio meccanico giace immobile a terra. Un insetto rosso scuro, dalla lunga proboscide argentata che termina in una mono-narice gigante, nera, piena di vibrisse prensili. L’ho presa dell’Ariete, stavolta. Avevo un buono-sconto da spendere nel negozio in cui lavoro. Mi serviva proprio; ne è testimone la scopa scapigliata che, dall’ameno angolo di sua proprietà, mi guarda in tralice da anni.
Aspira-polvere. Ah, adorato assemblaggio di ventole e filtri e tubi e ruote e cavo avvolgibile e presa tedesca! 
Questa casa, palafitta meravigliosa con le zampe affondate nella laguna veneziana, trasuda sale e colleziona micro-particelle volatili più sottili del pm10, ma più numerose dell’intera popolazione mondiale. Senza aspira-polvere mi sentivo persa, sommersa da mute canine, pollini, pelucchi. 
Che poi, l’aspira-polvere è un lui o una lei? Inizia per “a” quindi l’articolo indeterminativo non aiuta, ché l’apostrofo se non c’è, non c’è; ma se c’è, s’infratta! «Per cortesia, mi saprebbe indicare un(’)aspira-polvere davvero potente?». È un elettro-domestico! Sarà maschio! D’accordo, ma se ci limitassimo al fatto che è una macchina, non scatterebbe l’attraversamento del valico di genere? 
Non se ne esce. In ogni caso, io l’ho sempre considerata femmina, forse perché raramente l’ho vista usare da un essere umano appartenente al sesso forte. La mia, di sicuro, ha l’apostrofo rosa.
Quando è accesa, fa il suo dovere a meraviglia: spazza, risucchia, fagocita, digerisce. Non è neppure schizzinosa! Briciole di mattoni, capelli, persino ragni o altri cosi non meglio identificati, dotati di troppe zampe per somigliare a noiosi bipedi o a scodinzolanti quadrupedi. Finito il lavoro, torna qui nel sottoscala, a fingersi morta.
La guardo. Qualcosa non torna. Osservo più intensamente, remando contro le cispe. Non è poi così lucida. Per carità, il colore vivace, là sotto, c’è ancora, ma appare velato, offeso. Sull’aspira-polvere si è formato uno spesso, soffice, grigissimo strato di sozzura. Di limpido è rimasto solo il manico o, per lo meno, la porzione di plastica definita dall’impronta delle mie dita.
Si possono fare ragionamenti pseudo-filosofici, al cesso e, per di più, di buona mattina? Il medium grazie al quale superfici orizzontali e verticali di questo posto sono linde è lurido. Fa fatica, s’ingolfa il mono-polmone, scalda le stanze - più di una stufa a gas - per liberare tutto da immondi depositi, e lei? Sporca da fare orrore. È così che va. Le aspirazioni costano, che vi credete?! Una logica da ossimoro, un destino infame; ma l’aspira-polvere è come uno Zero Negativo: dona a tutti, ma può ricevere solo da un suo simile. 
Due strappi di carta igienica. Sciacquone. Tavoletta giù. Spazzolino. Gargarismi. Sputo. Prelevo dal copri-capo del termo-sifone la spugna verde, quella morbida a nido d’ape. Apro il rubinetto. Lavo, strizzo e accarezzo. Lavo strizzo, accarezzo. Lavo, strizzo, accarezzo.
Torna come nuova.
Io sono uno Zero Positivo. Non mi sarei mai messa carponi a sniffarle la schiena. E non ho neppure la proboscide, lo dico per amor di precisione.
Ma è l’alba. L’inizio anomalo di un giorno nuovo. Il primo giorno in cui, all’improvviso, ho scoperto di essere una monda-aspira-polvere.

martedì 5 giugno 2012

Italia Pulit...a..ah..ahahahahahahah!




Più che all’ordine, sembra si tratti di un ritorno di fiamma per la famigerata casalinga di Voghera. Ecco perché la deceduta Forza Italia - e, con essa, l’antico scippo ai tifosi della nazionale - triturata nel macina-carne improduttivo del Pdl, pare sia pronta a rinascere dalla proprie ceneri, araba fenice cialtrona, nelle nuove, linde vesti di “Italia Pulita”. Forse rapito da un moto di nostalgia per i bei tempi andati, quando i pool antimafia andavano a caccia di mani luride da mondare - ché pecunia non olet, ma a’ voglia se insozza! - con evidente sprezzo del pericolo, il noto vecchietto si è seduto sul consueto trono (sì, è suo pure quello, ma non parlo del seggiolone di Uomini e Donne versione âgé) e, con il sempre fedele Dell’Utri (ehm... sì, proprio quel Dell’Utri) ha sfornato il gioioso brainstorming. Appena centrato il nome, si è aperta la questione “facce”. 
- Bene, chi ci mettiamo, Marcellino? 
- Eh, porca merda, Mike, Sandra e Raimondo sono cibo per vermi da un po’... proviamo con delle cere sostitutive? 
- No, dài, sai che io sono un uomo di buon gusto!
- Eh, ho capito, ma scordati le solite smandrappone, che sennò ricomincia il circo, e poi la sciùra Maria non ci vota!
Ma neanche una tetta della Barale?
- Silvio, le tette stanno a zero, occhèi? E pure cosce, culatelli, lonze e via dicendo.
- D’accordo, va bene. Ripeschiamo Emilio?
- Ma che, sei scemo? Ormai quello s’è sputtanato! Pensavo, che ne so, a un Salvo Sottile, un Gabibbo... qualcosa del genere!
- Ce-l’ho! Sei pronto?
- Spara!
- È come un gabibbo, ma meno rosso-comunista. Ha un muso rassicurante, perfetto. Ha la parlantina sciolta e piace alle mamme e alle nonne. È un po' il babbo natale de noaltri. Ha iniziato con uno Smile sulle labbra, è timorato da me e da Dio (che poi è un po’ lo stesso) e pur avendo la bocca piena di riso, lo stronzo cereale non fa di lui un cretino...
- Gerry Scotti! Cazzo, capo, sei un genio!
Lo so, lo so... che dici, l’accendiamo?

martedì 29 maggio 2012

Troppi porcellini




Al piccolo piace la favola dei tre porcellini. Se accompagnata da debito motivetto disneyano, meglio ancora. Ogni santa volta, il più che legittimo quesito scaturisce spontaneamente dalle labbra treenni: «Ma pecché il pimo poccellino fa la casa di paia, ch’è tutta leggera e il lupo la soffia via? E pecché il secondo poccellino la fa sciolo di legno?»
Gli rispondiamo che è la pigrizia, il problema. E che il secondo è un solo po’ meno poltrone del primo. «Un po’ pigo e un po’ no, mamma?».
Esatto.
Dopo un terremoto è la paura, a farla da padrona. Si chiudono le scuole, gli uffici pubblici, persino le fabbriche. Appena l’allarme rientra, però, è necessario rimettere in moto la macchina, far ripartire le attività, dare al lavoro il ruolo di catalizzatore. Per il coraggio. Per la ricostruzione. Per non mortificare ulteriormente i processi economici.
D’accordo. È comprensibile. Ma cosa succede quando la terra trema ancora, di giorno, alle nove del mattino di un qualsiasi martedì?
Capita che capannoni indebitamente autorizzati ad aprire se ne vengano giù come castelli di carte. E capita che, intrappolati in quei castelli, non ci siano principesse isteriche dalle lunghe trecce, ma operai. Tute blu mal pagate, spesso assunte in nero, disposte a rischiare - ché la crisi è crisi, e non c’è spauracchio tellurico che tenga.
Non si muore per un sisma di questa portata. Si muore per l’indecenza degli affaristi, per l’approssimazione dei tecnici, per l’indifferenza di chi va, vede e tace.
Vorrei tanto vederli in faccia, i porci a capo di quelle aziende. Per spiegare loro che persino un assiduo frequentatore dell’asilo sa che le fabbriche non si costruiscono con paglia e legno.

giovedì 24 maggio 2012

Essere. O non essere.




Ero al liceo e, nella mia stanza, ogni superficie verticale era ancora soffocata da un’orrenda carta da parati rosa antico. Ci ho dipinto sopra, ci ho sbattuto contro una quantità improbabile di poster di calciatori e musicisti, ci ho scritto. Oh, grana e grammatura erano perfette, per la collezione di Tratto Pen che avevo nel cassetto! Moniti di poeti, testi di canzoni, appunti per non scordare un pensiero in volo radente. 
Mi perseguitava una parola. Scrissi anche quella, inclusa tutta la sbobba che recitava il dizionario, perché non riuscivo a impararne il significato. 

Ontologia: dal greco òn, il cui genitivo è òntos, participio presente di êinai (essere); insieme a logia, che sta per lògos (discorso, dottrina). Scienza dell’essere, dottrina sull’essere in quanto tale, nonché relativa alle sue categorie fondamentali.

Bene. E che diamine è un ente? Sì, bravi, l’INPS... non parlo di quel genere di ente, ma di "ciò che è qualcosa di esistente o di possibile (in opposizione a ciò che non è)". L’insieme degli enti costituisce l’essenza (scoperta, l’acqua calda?) che, secondo Aristotele, significa "ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa" e sta quindi a indicare quelle determinazioni di un ‘oggetto’, specificate nella sua definizione, che ne costituiscono e determinano la natura.
Tutto chiaro, fin qui?

Io sono
Io sono e, in quanto esistente, potrei ritrovare il mio nome in lunghissime liste di caratteristiche, ascrivibili a decine di categorie diverse.
Ontologicamente parlando, perciò, quando mi definite “cassiera” non siete in errore. Ma è terribilmente divertente vedere le facce che fate quando mi ritrovate al reparto, a sistemare guanciali di fibra d’aloe o aromatizzati alla lavanda. Ed è addirittura esilarante immaginare quali espressioni vi calerebbero sulla fronte, come sipari mortiferi, se sapeste come mi riesce bene la torta al cioccolato, quanti libri lisi e pieni d’orecchie giacciano sulle mie mensole, come mi doni un seghetto alternativo tra le mani, quanti nomi io sappia trovare per definire i sogni belli che aleggeranno, durante la notte, sulla testa di mio figlio.

Ah, dimenticavo! Evitate di filosofeggiare troppo, in uno qualsiasi dei nostri bar. Qui, se l’oste è onto, non c'è Aristotele che tenga: vuol dire che non si lava. Ergo, cambiate bettola, finché siete in tempo.

martedì 22 maggio 2012

Che pizza!




Una cadenza ritmica necessaria, ecco cos’è. Se all’improvviso sparisse, per una semplice distrazione o magari per magia - come il solito calzino nella lavatrice - non potremmo più maledire il lunedì o ingolfarci di cioccolato a Pasqua. Non esisterebbero i cori, in chiesa, allo stadio, nei cortei autorizzati e in quelli abusivi, ché ognuno andrebbe per conto proprio. Nessuna sveglia ci concederebbe altri cinque minuti a letto, prima del caffè e del dentifricio quotidiani. I giornali non si chiamerebbero così, orfani della nozione di giorno. E la notte, per quanto ne sapremmo, potrebbe diventare infinitamente dilatata e nera. I verbi, dieta o non dieta, perderebbero la loro forma ideale; una catastrofe che neppure Moccia sotto LSD saprebbe imitare (lasciando lucchettari compulsivi a chiedersi se, quei tre metri sopra il cielo, sono, saranno, o siano stati davvero tre).
La povera Goggi vagherebbe, raminga, biascicando “Maledetta... maledetta... uff! Quella roba lì!”, giacché la primavera verrebbe tritata in un amalgama indistinto di secchielli e palette, foglie secche e fiocchi di neve. Chi ama la pizza quattro stagioni, tanto per dirne una, dovrebbe arrendersi al disordine stocastico di una capricciosa qualsiasi.
E povero Bergson! Non voglio neppure pensare alla rumba da tomba alla quale sarebbe costretto, se sapesse di una tale sparizione! Quella della pizza? Ma no, che avete capito?! 
È il tempo, il protagonista.
Io ne sono ingorda. Non mi basta mai. Però ne conosco tanti, di spreconi scellerati! Ci sono quelli che si comprano aggeggi improbabili o cruciverba con tripli salti carpiati per “farlo passare” (ma che è, la varicella?!) e, addirittura, degli autentici killer. Quelli che, per esempio, alle nove del mattino di un sabato assolato non hanno di meglio da fare che venire a fare un giretto al centro commerciale. Sono svogliati, incontentabili, frustrati, maleducati. Ammorbano gli addetti vendita, l’ufficio reclami, direttore, vicedirettore, guardia disarmata e noi cassiere con un unico, preciso scopo: ammazzare il tempo. Potrebbero dormire, andare al mare, mangiare un chilo di fragole, ascoltare Bach, giocare a nascondino, dare l’acqua alle piante, festeggiare un compleanno. E invece no. Tutti lì, gli assassini, a polverizzare gli ammennicoli. 
«Bella ingrata!», penserete, «tiri la paga grazie a loro!». Vero. L’odio per il tempo di quei bipedi incoscienti mi dà lo stipendio. Ecco perché detesto i loro volti.
Quasi quanto il mio.

domenica 20 maggio 2012

Tellurica



C’è un motivo per cui, nei momenti in cui mi pigliava la “scipitella”, mia madre mi dava della “scema di guerra, anzi, di terremoto!”. Sono nata nel Settantasei, pochi giorni prima del sisma per eccellenza; e il Friuli, da qui, è distante uno sputo. La terra che sussulta è un’epifania sublime: intimorisce, certo, come tutte le cose che sfuggono al controllo; ma è affascinante, potente, maestosa, nella sua travolgente indipendenza.
È strano. Per spirito di contraddizione, ho sempre opposto al terrore dei miei una certa divertita noncuranza, quanto a eventuali mondani borborigmi: «Eh, l’infarto! Ma su, basta co’sto teatro!» mi affrettavo a ripetere, ridacchiando e voltando le spalle.

Stanotte, alle quattro e tre minuti, ho smesso di fare la spiritosa.

Quella crepa lungo la parete mi pare più larga.
Questa è una casa vecchia, che poggia le fondamenta sulle “brìcole”. Una palafitta che trasuda sale. Una zattera in ammollo nella laguna. Il pavimento è sbilenco e l’anta dell’armadio Ikea sporge più del solito... 
Abbiamo stipato troppa roba, in cima al soppalco che incombe sul lettino del piccolo. E se - magari alle due, o alle tre del mattino - una scossa forte facesse venire giù tutto?
Alle tre e diciotto di oggi pomeriggio il letto ha tremato ancora.

Fuori, nel cielo bigio e carico di pioggia, il solito fiero merlo maschio, geometra nero e leggiadro, disegna spirali auree.
Poi si posa a terra. Scompare per metà nell’erba nuova. Becca e becca e becca. Mi avvicino. 
Sta dilaniando una lucertola.

Neppure fossimo in tempo di guerra.

giovedì 10 maggio 2012

Direzioni



Il cerchio, al primo sguardo, può apparire simpatico. Piano, compiuto, privo di spigoli e asperità. Ma è chiuso, come sa bene Donna Antonomasia. Un circolo autonomo, con un centro che mantiene, tra sé e ogni punto della circonferenza, la medesima distanza. È la chiave del controllo: il perfetto panottico per annichilire l’alterità, ridurla a elemento compositivo, funzionale a un microcosmo sacro, separato, inaccessibile. 
Ed ecco spuntare la linea. Stretta, asciutta, cocciuta. Chissà da dove parte, lei, e dove arriva, soprattutto! Quando essa si accosta al cerchio, viene in contatto con uno solo degli innumerevoli punti sbiechi. Lo tocca, in un minuscolo dove, in un minuscolo quando. Ed è proprio lì che giace l’indicazione sospirata: un cartello d’aria che dischiude una porta nuova, la via di fuga, la falla nel sistema. 
Non prendetevela con me, dunque. Quando abbandono il filo logico che voi imponete, quando scelgo di andare fuori tema, quando rifiuto l’orto perfetto e immacolato del vostro centro, lo faccio per un innato bisogno di trovare la mia strada. 
Se sta stretto anche a voi, quel cerchio, raggiungete lo svincolo. Fate presto, però, ché non attenderò a lungo. Preparerò una valigia leggera, indosserò i sandali di cuoio e, infilata una mela in tasca, partirò. 
Per la tangente. 
Che sarà pure una deviazione fuorilegge ma, cari miei, tende all’infinito!

martedì 8 maggio 2012

Campioni!




Si era a digiuno da un bel po’, noi zebre. A lingua in fuori, abbiamo vagato a lungo per ampie e aride steppe virate al nerazzurro o, peggio, con il cielo tinto di rosso, a far da contraltare alle amabili righe nere. Battutisti scatenati sui social network (una su tutte: “30 scudetti per gli juventini, 28 per la questura”), crisi mistiche ai bar dello sport, infinite code di iettatori, impegnati sino all’ultimo istante, nulla hanno potuto contro l’imbattibilità sul campo della vecchia Signora. 
Lo so, sono una donna, e adulta, oltretutto. Sono perfettamente consapevole di quanto marcio ci sia in Danimarca. Il calcio-scommesse, la Calciopoli tutta - piena zeppa di bande Bassotti, arbitri prezzolati, pay-tv e nandroloni... non vivo sulla luna. Deprime anche me, questo truffaldino, ridicolo circo. 
Ma io sono una tifosa da album Panini, immersa nell’antica poesia del ce-l’ho-manca. Lo zio preferito, gobbo fino al midollo, dopo il “papà” e il “mamma” d’ordinanza, mi ha insegnato a pronunciare la terza parola: “Forzajuve”. I miei tre migliori amici, alle elementari, avevano nomi normali e tifavano per squadre normali, oneste e quadrate: Carlo per la Roma, Sandro per il Como e Mario per il Napoli. Quando la Juve perdeva, andavo a scuola vestita di nero, prona, schiacciata dal nembo del lutto. Qualche volta, persino, rimanevo direttamente sotto le coperte, per non subire l’affronto degli sfottò acidi e compiaciuti dei miei compagni.
Alle bambole e ai giochi pacati e noiosissimi delle bimbe, preferivo la competizione bonaria, robusta dei maschi, tra un fallo da ultimo uomo e una rimessa laterale. La conta tra i due capitani, la lista delle squadre, la speranza di non essere mai l’ultima scelta, che sennò si capisce che sei una pippa con il pallone sui piedi. Il rispetto pesava come piombo, giù al campetto. Eravamo piccoli guerrieri pieni di fiato e fiducia. 

Lo scudetto è nostro, belli miei.
Non rompetemi l’anima: chissenefrega dei quattro bambocci milionari e viziati, che per mestiere corrono, in mutandoni, dietro a una palla! Siamo noi, i campioni d’Italia! Noi che avevamo il poster gigante sopra la testiera del letto, con i bei faccioni di Cabrini e Platini, noi che rosicchiavamo le unghie fino alla carne, per una finale di Coppa Campioni (altro che Sciampionslìg!), noi che, bandiera sulle spalle, pattinavamo lungo il corridoio incerato di casa per un quarto d’ora, dopo un gol di Laudrup.

Si è persino coniata la formula “calcio giocato” per distinguere l’italico passatempo più amato e praticato della nostra storia dalle furbate dei corrotti. Ebbene: che milanisti, interisti, romanisti e compagnia blaterante trascorrano pure il proprio tempo a dissertare su quello che pare a loro.
Da qui in cima, con un sorriso beato stampato sui denti, non ci resta che fare spallucce, girare i tacchetti e continuare a canticchiare “I campioni dell’Italia siamo noooi!”

lunedì 30 aprile 2012

36




Mi sembrava un numero particolarmente insipido, fino a qualche ora fa. Dopo l’opportuna overdose di zuccheri - che la crema pasticciera è un’arte perigliosa - un caffè corretto panna montata, la candelina spenta (una e simbolica, che non ci sono estintori a portata di mano) e una solida Diana Blu, devo ammettere che la prospettiva è cambiata.
Trentasei. 
Diciotto? Sì, per-due, come le gambe. La boa della maggiore età oltrepassata a pelo d’acqua; e pure a contro-pelo, già che c’ero. Non amo le cifre tonde ma forse, questa, un senso ce l’ha (con buona pace di Vasco Rossi).
Non mi dispiacciono le rughe. Quelle che s’impennano sotto gli zigomi, quelle che arricciano il naso, quelle che increspano le palpebre. Perché suggeriscono, nemmeno troppo in sordina, che la mia faccia, da quando ha imparato a ridere, non ha più smesso.
La pelle non è più tonica, qualche capello è impallidito inesorabilmente, la taglia trentotto è alla conquista della quarantadue, la schiena fa le bizze. 
Chissenefrega. È tutto talmente naturale da essere sacrosanto e perfetto.
I cento “buon compleanno” degli amici, il piccolo che canta, con il papà, “Tanti auguri a te” (mettendoci persino la erre!), la cagna che scodinzola e, fuori, le lucertole che si rincorrono, in un instancabile zig-zag tra il pesco, l’albicocco, il glicine e i girasoli. 
Ecco cos’è, che trasforma un insulso 36 in un pomeriggio di primavera.

venerdì 27 aprile 2012

Buon compleanno




Gioia. Si chiama così, la maestra d’asilo di mio figlio. Be’, la giusta definizione è educatrice, in realtà; e io non dovrei cedere alla tentazione di nomenclature nostalgiche e scorrette. Non devo a ragion veduta, a dirla tutta, ché i latini già sapevano che ex-ducere significa trarre fuori, allevare, condurre a compimento le naturali inclinazioni di un individuo, muovendosi entro un adeguato perimetro di regole, sponde fondamentali per una convivenza serena. 
Entrambe, Gioia e io, festeggiamo il compleanno il trenta aprile. Anche se lei è nata nell’86, dieci anni dopo di me. Strana coincidenza, no?
Qualche giorno fa si è presa della lavativa dai genitori di una bimbetta inespressiva e dispettosa. Perché si è permessa di partecipare a qualche assemblea e, addirittura, di scioperare per un’intera giornata. L’anno prossimo, per fare cassa, qualcuno potrebbe chiudere la sezione “nido” dell’asilo. Gioia perderebbe il posto di lavoro e, con lei, le ausiliarie (alla soglia degli anta) che tengono pulite e in ordine le aule, consolano cosini di diciotto mesi con le ginocchia sbucciate, sorvegliano entrate e uscite.
«Sono andata a casa, mi sono fatta un pianto e, il giorno dopo, ho cominciato a chiedere a tutti se, per caso, apparissi davvero come mi avevano descritta», mi ha detto Gioia. «Ma va là, patata!», mi sono limitata a risponderle, «deve sempre ricordarti di verificare quale sia il pulpito da cui viene la predica! In certi casi - te lo dico da vecchia zia - io ho imparato a prendere simili critiche per complimenti... mi spiego?»
Ho cercato di alleggerire. Poi le ho chiesto se il prossimo luglio terranno aperta la struttura per i centri estivi. Un mese di giochi d’acqua, piedi nudi nell’erba, sole e piccoli guerrieri armati di palette e secchielli. «Spero di sì,» mi ha risposto, «anche perché - detto tra noi - solo così mi pagherebbero anche il mese di agosto. Che, per carità, non è che ottocento euro siano una fortuna, ma meglio di niente, no?». 
«Ottocento euro?!»
«Sì, perché sono anche coordinatrice. Altrimenti sarebbero cento in meno.»

Cristo, no! Eh no, porco cane! 

Non date a Beppe Grillo, del populista, prendetevela con me, perché sto per spararne una sfilza, d’accordo?
Fanculo alle scuole private, religiose e non. Fanculo ai porci con le cravatte Regimental infilati nella solita autoblù mille-e-sei. Fanculo Pd, Pdl, Centro, Dintorni, ABC e tutto l’alfabeto di ladri auto-eletti, sedicenti rappresentanti del popolo. Fanculo al caro benzina, all’Imu, all’Iva, alle tasse regionali, provinciali, comunali, condominiali. Fanculo gli idraulici che non emettono fattura,  i notai, i dentisti, gli oculisti, e tutti gli altri “isti” che riducono la professione a una targa sulla porta e a uno stramaledetto viaggio nel mar Rosso. Fanculo all’abbonamento carissimo, e all’autobus che c’è fino a una cert’ora. Fanculo a banche e banchieri, novelli Dracula non per fame, per avidità. Fanculo agli schiavisti dei call center, della grande distribuzione, delle compagnie assicurative. Fanculo ai contratti a tempo, che impediscono di far valere i propri diritti e sfilano la dignità dal volto della gente.
È fuori da ogni grazia umana, prima che divina, che la ragazza, forte, preparata, giovane, piena di brio, che ci ha aiutato a insegnare a nostro figlio a pronunciare correttamente il proprio nome, a fare pipì nel vaso, a mangiare con la forchetta, a usare una forbice, a rispettare il prossimo, a collaborare, ad amare i sassi del giardino quanto le favole, rischi di rimanere disoccupata. Ed è folle che l’imbecille di turno se la prenda con lei. Quasi quanto il fatto che un paese, in cui tutto ciò convive con nonchalance, continui a definirsi civile.

Tanti auguri, cara Gioia. E grazie di tutto.