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martedì 15 dicembre 2015

La Piccola




Un'altra assemblea dei lavoratori. E oggi mi è toccato il battesimo. Il segretario non c'era, ché siamo a ridosso dello sciopero e le trattative, altrove, si sono moltiplicate e coperte di spine.

I colleghi presenti sono pochi. Ma buoni, e non solo per onorar il detto. 
Non sono intimidita. Ho studiato, conosco gli argomenti e i ragazzi sono preparati; e la controparte, con i soliti, ridicoli, miserevoli giochi, mi ha persino offerto un assist, sfornando un documento mendace e omertoso, così facile da contestare che, quasi quasi, ci si perde il gusto.
Infilo i punti del discorso come perle di fiume. I lavoratori comprendono, si confrontano, partecipano. Qualcuno sbocconcella un mandarino, perché stanno sacrificando la pausa pranzo.
All'improvviso, si apre la porta. Compare un visino bianco e nitido, due grandi occhi chiari, un piercing sotto il labbro. 
È La Piccola. 
È una degli addetti del reparto più grosso. Ha un contratto a tempo determinato, che scadrà tra qualche mese. Ha vent'anni. E siccome ha vent'anni, potrebbe essere mia figlia. 
Chiede se può partecipare all'assemblea. È venuta apposta, ché non era neppure in turno, oggi.
Visto che, dall'ufficio accanto, c'è chi sbircia, per verificare quali formiche facinorose compongano il viavai carbonaro, quello della Piccola è già un gesto coraggioso. No, non coraggioso e basta. Eroico.
Ascolta con attenzione, pone domande, mentre i begli occhi le si allargano come fiori al sole.
Vorrebbe scioperare. Non può farlo. La lascerebbero a casa. Io lo so. Lei lo sa. 
Mi dice "perdonami, io ho paura" e io le rispondo che ci sono pandori di un metro e ottanta, lì dentro, tutelatissimi e con il culo al caldo, che non hanno un quarto della dignità che lei coltiva su un mignolo.
Accidenti! Si scusa, La Piccola, perché subisce un sopruso. E non sa, forse perché non riesco ad abbracciarla come l'avessi partorita sul serio, che la sua sola presenza, in quella stanza, ha restituito a una vecchia ciabatta comunista una cosa preziosa come l'aria: la speranza. 
Non è tutto perduto. Non esistono generazioni allo sbando. Esistono le persone.



L'ho salutata, fuori, al sole, fumando una cicca insieme. E ho spinto il fiato a fatica, giù in gola, perché lei splendeva. Fino a commuovermi.

Grazie, Piccola. Perché hai la tua testa, vent'anni e un piercing sul visino bianco. Perché c'eri.
Perché ci sei. 
Prenderò una barca alle quattro del mattino, il diciannove dicembre. Milano è a Milano e ci si deve arrivare in pullman, per comporre il corteo.
Sfanculerò la sveglia, farò la linguaccia alle palpebre bolse, dinanzi allo specchio. Ma quando il faro del battello fenderà il buio, nella mia direzione, saprò che ho un motivo in più per resistere.
Per continuare a Essere.
Grazie, Piccola. Lotta, finché sei in tempo.

domenica 15 novembre 2015

Ama il prossimo tuo

L'immagine ritrae un'opera dell'artista Eva Antonini




Valeria è morta. Anche lei, come i troppi altri del Bataclan. Era veneziana. Aveva vissuto qui, a uno sputo da dove io vivo ancora. Non la conoscevo.
Il peso abbandonato del suo corpo fa più male di quello degli altri ragazzi che assistevano al concerto? Più degli avventori del ristorante? Più dei tifosi allo stadio? Più dei siriani trucidati, degli afgani, dei kenioti, dei russi precipitati con l'abbattimento del volo da Sharm el-Sheikh?

A me sì, fa un po' più male.

Perché avrei potuto conoscerla. Perché abbiamo preso gli stessi autobus, di certo, decine di volte. Perché abbiamo calpestato le stesse vecchie pietre lisce che cantano serenissimi passi. Perché, a entrambe, piace la musica rock. Piaceva.
Perché se fossi stata a Parigi, avrei potuto essere al suo posto, travolta dalla gioia mia e di altri individui, uniti da una passione comune e perfetta.

La pornografia di certi quotidiani, il becero, populista sciacallaggio dei pecoroni leghisti - che cianciano e cianciano, senza pudore alcuno - i passaporti falsi, usati come cartellini rossi di arbitri in malafede, gli affaristi cibernetici, che inventano bandiere sovrapponibili ai volti o t-shirt pre-stampate con la Tour Eiffel, le lacrime, le candele e tutto il corredo di feticci dolosi, di simboli strazianti, di viscere esposte...
tutto questo va oltre. 
Oltre la comprensione, la compassione. Oltre la coscienza: ché una pennellata tricolore, forse così si augurano, laverà le anime e metterà al riparo dalla paura. 

State dimenticando qualcosa. Se Valeria si fosse chiamata Aisha e avesse vissuto qui, a uno sputo da casa vostra? Se ci foste cresciuti, con Aisha? Se fosse stata un'amica, la vostra ragazza, la baby sitter di vostro figlio? Se aveste mangiato una pasta e fagioli insieme, alla Sagra di Qualche Santo, imbarazzati - per i primi cinque minuti - da un tavolaccio di legno da condividere? 

La soluzione è sempre stata lì, a portata di mano. 
Più sentiamo qualcuno vicino, più ne abbiamo cura. Vogliamo il suo bene, tuteliamo la sua vita, la sua opinione. La sua diversità. Più teniamo qualcuno vicino, più egli avrà cura di noi.

Accidenti, non è così difficile da capire. Neppure per gli ovini.
Non ve ne farete granché, delle ruspe, quando i vostri figli cammineranno, con rabbia o per noia, sul sentiero del 'nemico'.

Valeria è morta. E io no. 
E non voglio concedermi di avere una facciata, da difendere. Preferisco il dolore di conservare una faccia. La colpa, l'immonda fortuna di non essermi trovata, per ora, nel posto sbagliato al momento sbagliato.

sabato 25 aprile 2015

Grazie, Aldo.



È mattina. Il tabaccaio è aperto. Compro le sigarette e Il Manifesto, ché oggi c'è l'Alias speciale. Prendo anche un giochino per Topodimamma e scelgo un numero per la lotteria, il 19, il giorno in cui è nato lui; magari si vince la cesta con l'olio buono, non si sa mai.
Poi passeggio lungo la riva, diretta alla farmacia. Anche il panificio è aperto. Pane fascista, probabilmente, ma lo abbiamo finito, quindi toccherà fare scorta.
In farmacia, prima di me, c'è un signore di una certa età che parla con Gianni. Gianni se le fa sempre dentro, le feste. Il signore, un uomo di bassa statura, parzialmente calvo e già con una sporta piena di scatoline, gli sta mostrando una foto. "So mi", dice, "gèro a Torino, setantàni fa. Àrime, gèro vestìo da partigiàn!", aggiunge, con un sorriso pieno e fiero. Mi avvicino di qualche passo, in barba alla linea che dovrebbe tutelare la privatezza del cliente precedente. "Posso vardàr anca mi?", dico; e lo faccio in dialetto, ché è più facile chiedere il permesso di sbirciare una foto in bianco e nero se ti presenti come si deve. Il signore volta l'immagine verso di me, felice come quando Topodimamma trova l'ultima figurina dell'album. Il farmacista si limita a ripetere che vi è ritratto "proprio un bel òmo" e io seguo i profili di quel volto. Un viso giovane, con lo sguardo di fuoco. Il signore avrà avuto vent'anni. Imbracciava un fucile. "Gèro in piàssa Vittorio, co i ga da' l'annuncio dea Liberazione. No ve digo che beo, che xe sta'!" e si capisce eccome, quanto deve essere stato bello, per lui, essere in quella piazza. "Xe a me festa, oggi. E so 'ncora vivo". "Per fortuna", dico io, e "Sì, è proprio la sua festa. E anche la mia."

Indosso i pantaloni sui quali avevo cucito le toppe rosse, l'anno scorso, costretta a lavorare. Ci avevo ricamato alcuni versi di Bella ciao. E giusto ieri pensavo a quanto sarebbe stato importante parlare con un partigiano, il 25 Aprile.
Uscita dalla farmacia ho raggiunto il panificio. Il partigiano era davanti a me. Ha lasciato la sporta con i medicinali alla panettiera. "Ti me a tièn, finché vado tórme el giornal?", le chiede. "Sì, Aldo", fa lei. "Ma no sta a magnarte tutto...", la mette in guardia. "Mi, 'sta roba, no me a magno de sicuro!", chiosa lei.
Ecco, evviva!, so come si chiama.

Oggi, nonostante tutto, questo è un paese libero. E io sono felice. 

Grazie, Aldo. A te, e a tutti gli uomini che, in bianco e nero, gioivano in piazza, settant'anni fa.


martedì 21 aprile 2015

Stand straight





Ascolto Jigsaw, in auto, a volume alto, ché diversamente non si deve fare. Davanti, il cancello azzurro e sbiadito del magazzino. Ancora chiuso. L'azienda ha investito un po' di denaro, in mia assenza. Ci sono nuovi striscioni, cartelli bianchi e rossi con il logo e gli orari per il ritiro delle merci.

Non so perché sono qui. Per lavorare, certo. Colli, scatole, involti da stipare, ordinare, aprire, chiudere, spostare. Continuamente. Ottusamente.
Ho sprecato quasi quarant'anni della mia esistenza. Potevo cantare. Potevo scrivere. Potevo fare l'artista. E invece niente. Forse perché è fondamentale accorgersi per tempo della somma differenza che intercorre tra essere o fare qualcosa. 
Questo disco dei Marillion catalizza l'ansia. Non sempre. In alcuni precisi momenti: quando gli arti somigliano a rami agitati dal vento, prima del temporale. Gli acuti e i bassi, le rullate furiose e le armonie struggenti - come solo qualche visionario sognatore può attribuire a un kimono di seta - vibrano. Stordiscono. Trascinano in un gorgo. 
Vorrei avere una mazza tra le mani. Di quelle pesanti da sollevare. Vorrei demolire gli spigoli di ogni tempio eretto per orrore del vuoto. Un vuoto contemporaneo, fatto di necessità non necessarie.
Non ho il nodo alla gola. È più un bolo aspro; un riccio puntuto che scortica le mucose mentre gode nel farsi inghiottire e inghiottire, inutilmente. 
Ieri ero ancora a Lecce. La sabbia gialla e compatta della pietra, delle volute, dei festoni. Brillava contro le merlature blu del cielo. Un cielo terso e profondo spezzato, di quando in quando, dal volo spericolato e perfetto delle rondini. Il centro storico, piazza Sant'Oronzo e il Teatro greco, il caffè in ghiaccio con il latte di mandorla al posto dello zucchero, il gelato al pistacchio, così pieno di scaglie che toccava masticarlo.
Poi nove ore di treno e di pioggia battente, e le lande ampie e desolate della pianura padana sono tornate ad allargarsi indicibilmente.
Probabilmente io non sono qui. Perché non ha senso essere questo. Né trovarsi in un luogo che, in ogni spaccatura di cemento, in ogni timbratrice, in ogni riflesso stanco del sole, sembra ridere del coraggio che non ho avuto, di tutte le strade vecchie onorate a sfavore di sentieri ritorti e possibili, della forza che mi è mancata quando, sotto la fune, non ho avuto la certezza della rete.
Ora ci sono dentro, alla rete. 
Un pesce mal cresciuto, catturato a strascico con altri orribilmente simili a me e, insieme, dolorosamente diversi. 



domenica 19 aprile 2015

Non ci siamo più



Non è la guerra, dalla quale fuggono. Non sono i folli, gli estremisti, gli assassini. Non è la prospettiva di una vita diversa, solo immaginata. È l'irrazionalità, a generare sgomento. 
Almeno settecento persone, su una barcaccia malandata; in pericolo, infreddolite, spaventate. 
Poi appare una nave, che si avvicina con cautela, per prestare soccorso. E molte, di quelle settecento persone, non riescono a inghiottire il panico. Così si sporgono, tutte dallo stesso lato, all'unisono, ché il terrore è una nota lunga che non si domina, che appartiene all'umano quanto all'animale. Si sbracciano, si agitano, pesano. Pesano troppo. E la barcaccia si rovescia, zattera funesta, come un mezz'uovo abbandonato in una pozza nera. 
E non c'è più, il panico. 
Perché manca l'aria. Manca il tepore.


E non ci sono più, quelle settecento persone. 

Bambini, ragazzi, uomini e donne in fuga dai soprusi, dalla viltà, dalla fame, dall'indecenza della dignità violata.


E non ci siamo più neppure noi. Da quando abbiamo iniziato a scordare tutto. A dimenticare il sapore dell'acqua salata. Quella che, da bambini, per un istante, per sbaglio, ci entrava nel naso. Un secondo prima che qualcuno avesse cura di noi.


domenica 5 aprile 2015

'Ottanta voglia di Pasqua



La credenza di nonna Vittoria cambiava testa. Una merlatura variopinta e crepitante faceva brillare il noce più di qualsiasi straccio imbevuto di Pronto Legno. Fui l'unica nipote per una decina d'anni e non mi è mancata una benedetta profusione di zii, prozii e secondi cugini, ognuno propenso a farmi alzare, con bonomia, il livello di acetone. Cominciavo a chiedere "quando mangiamo?" più o meno alle nove del mattino, mentre la nonna ungeva le mani di olio, pronta a impastare l'impanata di cavolfiori. Non avevo tutta la fame del mondo, specie dopo una colazione a base di biscotti, marmellate, bidoni di latte e Ovomaltina; volevo si archiviasse la pratica del pranzo rapidamente, ché c'era ben altro, da fare.
L'ultima goccia di caffè, sorbita dal commensale più lento, era il segnale di via: l'industriosa squadra di formiche liberava il tavolo, riponeva bottiglie e forchette, asportava tazzine e briciole. Infine s'infagottava la tovaglia, ripiegandone i lembi secondo una liturgia sempre uguale, perfetta.
Il tavolo era ampio e lucido. Lo zio Carlo metteva le mani a conca all'altezza delle ginocchia, con le dita intrecciate, e mi strizzava l'occhio. Le sue mani erano del mio numero di piedi. Mi issava sino alla cresta della credenza e io, furetto agile e lungo, afferravo un bolo dopo l'altro. Mezzo minuto, e il desco pareva apparecchiato di nuovo. E che bel rumore faceva, tutta quella carta di plastica. Fiori, pallini, strisce, pulcini, agnelli rosa e angioletti. Le confezioni erano meravigliose. 
C'era sempre almeno uno zio ardito che, nella covata al latte, introduceva furtivamente un uovo di cioccolato fondente "e però ne mangi un pezzettino solo, eh, ché questo è amaro!". E no, non era mai amaro, ma gli adulti tutelavano il mio stomaco caricandosi l'onere di spazzolarlo, prima che il pezzettino assumesse dimensioni sconsigliabili.
Nastri tubolari dorati, legati strettamente intorno a ciuffi crepitanti. Cravatte sintetiche e infide, impossibili da sciogliere. Nonna Vittoria lo sapeva e, nella tasca del grembiule, aveva già il solito paio di forbici. "Te lo taglio io, gioia mia! Taglio e basta, poi lo apri tu."
Infine il climax: un pugno da comizio, tutto curiosità e fervore, calato dall'alto e di taglio. Una ghigliottina goffa e ingorda, che si abbatteva sulle curve lisce e sinuose di ogni scrigno.
Ciascuna sorpresa doveva vendicare la pochezza della precedente. "Magari trovi una borsetta!", ammiccava zia Paola. "E se ci fosse un puzzle?" ipotizzava Cristina. "Secondo me, sarebbe meglio che ci fosse un altro uovo, dentro!" sdrammatizzava Claudio.
Io collezionavo portachiavi. Quelli, c'erano. A rondinella, con lo stemma della Juve, a orsetto, a caramella. Di qualsiasi forma e dimensione, nelle uova di Pasqua degli anni Ottanta, c'erano sempre e solo portachiavi.
Ed era bellissimo, fingere di stupirsi.


Topodimamma, nelle sue, ha trovato trottole tecnologiche dei Pinguini del Madagascar, Capitan America che spara affari azzurri contro nemici di cartone, una gomma da cancellare a forma di coccinella e una specie di pecora, cucita a mano, di cotone. 

Orrenda. 
Attaccata a un ciondolino di metallo. 
Devo controllare la data di scadenza, di 'sto cavolo di uovo solidal. 

giovedì 26 febbraio 2015

Grazie.



Dovrei pulire. Togliere il cuscino, la coperta, il panno bianco. Dovrei anche cambiarmi e mettere la maglia e i pantaloni nel cesto della biancheria sporca. Dovrei far sparire i biscotti al ripieno di carne e gli snack anti-tartaro. Dovrei ragionare e capire dove mettere la cuccia, gli asciugamani che usavamo solo per lei, il libretto sanitario, il collare con il nome. 
Perché non servono più.
Invece me ne sto qui. Puzzo di urina e di tutte le situazioni in cui sono stata manchevole.
Resto ferma ancora un po'. Non perché mi piaccia sguazzare in un assai poco dignitoso brodo dolente, né per espiare alcunché; e 'fanpiffero a tutti gli "escusatio non petita..." già in resta. Resto perché ho uno strofinaccio grezzo attorcigliato nello stomaco. Ne sento peso e consistenza, quasi potessi afferrarlo, con le dita piantate sotto le coste. 
E perché mi aveva scelto. Mi era saltata in braccio, con la lingua penzoloni e gli orecchi scomposti dalla corsa. Era la più magra del canile. Ma aveva una voglia di stare al mondo come non ne avevo mai viste.
Mi saltò in braccio, dieci anni fa. E ora è morbidezza nella terra soffice.
Russava come una segheria, di notte. Faceva la faccia da cane magro che più magro non si può, davanti a una coscia di pollo destinata a umano piatto. E, finché le zampe hanno retto, correva come una saetta. Veloce, elegante, sottile.
Qui dentro c'è un silenzio troppo gonfio, ed è anche per questo, che resto. Topodimamma, cui dovrò infinite e perigliose spiegazioni, è all'asilo. Il consorte al lavoro, ma per fortuna abbiamo parlato. Al telefono. Ché in momenti così lui c'è anche quando non c'è.
C'è silenzio, e non solo. Un vuoto simile solo a se stesso. Una voragine d'assenza, scandita dai secondi dell'orologio, che mi pare di udire per la prima volta.

L'ho avvolta in una federa ampia e bianca, di un bel cotone solido. Quelle federe di una volta, non la merda che si trova oggi in giro. L'ho adagiata nella buca, piano, con garbo. Piangendoci sopra.
Aveva ancora la testolina morbida, sotto la stoffa.
Le sono rimasti gli occhi semiaperti. O semichiusi. Sul chi va là, ché magari vale la pena rimanere vigili, non si sa mai: le avventure nascono spesso per caso, e non vanno perse.
Con le mani ho raccolto una terra densa e profumata, piena di sassi, piccole conchiglie, frammenti di vetro smussati dai secoli. E poco per volta la federa non c'era più.
Le mani, poi la pala. Poi sono ricomparsi i ciuffi d'erba, rimossi nottetempo scavando.
E poi basta.

Mi sento orfana di Zena. Il cane "vivente". Il perfetto "cane a forma di cane". La cagna. La cana. 
E di quando il Topo, ancora a caccia delle prime parole, agitava le manine, rideva e la chiamava "Bù!"


Oggi devo preparare un dolce, ché il Topo, sabato, fa la festa di compleanno con gli amici. Lo farò stasera. 
C'è ancora tempo.


giovedì 19 febbraio 2015

Da sei anni, Sei.




Oggi il Topodimamma compie sei anni. 
Sei. 
Devo ripeterlo, perché suona strano. Appena nato, a suo padre stava in una mano. Ora è alto più di un metro e venti e pesa ventidue chili. Un gigante. Che ride, chiacchiera tutto il giorno (e pure la notte, se i sogni meritano una narrazione) e fa i capricci, ma con una voce meno sottile di ieri. Al supermercato tocca allestire una sporta speciale, ingombrante e leggera, cosicché possa eroicamente dimostrare al mondo quanto sia cresciuto. La regge con tutta la mano, fiero di essere applaudito dal fruttivendolo, dalla fioraia, dalle cassiere della Coop, che gli strizzano l'occhio, gli allungano una caramella, gli accarezzano il capo, mentre ripetono: "Ti xe el putèo più bravo dell'ìsoea!"
Colleziona rane gommose e ne trascrive i nomi sull'apposito foglio, dopo aver letto con pazienza quanto saltino, quanto mangino, quali armi segrete nascondano quelle vere, ritratte nel librino allegato al feticcio.
Comprende e rielabora, da par suo, le Favole al telefono di Rodari. Ne leggiamo una ogni sera, a letto, prima di dormire.
È vivo. Sta bene. Cresce. Da sei anni.
Sei.
Non sottolineerò che "sembra ieri"; ché la banalità travolge la verità assoluta delle frasi lapalissiane. Però è così.
Quando mi fermo, e lo guardo di sguincio mentre canta, o guarda la tv, o costruisce una barca di cartone per il suo nuovo amico millepiedi, mi riprendo il tempo sottratto dalle incombenze. Lo sbircio e non mi capacito dell'enorme fortuna mi sia capitata in sorte. E chi se ne frega della lotteria.
Oh Topo! Sei vivo. E stai bene, per fortuna.
Da sei anni,
Sei.

lunedì 12 gennaio 2015

Ma Charlie, chi?



Parole. Molte. Scritte, dette, berciate qualche volta. Il giorno degli attentati a Parigi ero a lavoro. Nel purgatorio del magazzino, al freddo, a scaricare, spacchettare, contare, ricaricare e archiviare scatoloni di cartone. Pieni e vuoti insieme. Ingombranti. Taglienti. Pesanti.

Ho saputo cosa fosse accaduto durante la pausa pranzo, quando ho chiamato casa per sentire un po' di tepore.
Un giornale satirico del quale nulla sapevo. Morti. Estremisti islamici. E poi il supermercato, gli ebrei, un bambino nascosto in un frigorifero.
Più tardi, la rete. Il 2.0 che s'indigna, estrude il mento, solidarizza con tasti e fibra ottica e corrente elettrica; e in un istante, indossando un hashtag come fosse il saio dei giusti, ecco tutti diventare Charlie.
Ma Charlie, chi? Tutti francesi? Tutti umoristi? Tutti buddisti (per non sbagliare)? Tutti europei, coraggiosi, pacifisti, difensori della libertà di stampa, delle idee, di culto?
La questione è complessa. Complicata dalle ciance, dalle architetture di carta dei complottisti, dal fanatismo; dalle ideologie preconfezionate, assunte come confetti all'anice e alitate di bocca in bocca, digerite, riproposte in forma di vessillo o di monito.
Si moltiplicano gli esperti; di Isis, di Islam, di Maometto, di politica, di storia. Di disegno, persino. Tutti a caccia dello slogan vincente, dell'immagine più azzeccata, della suggestione più struggente.
Io non sono Charlie. 
Non ho mai fatto satira e, se anche la facessi, vivo in Italia: non saprei essere abbastanza "stupida e cattiva". O forse sì, ma con il sedere al caldo in una nicchia di salvifico anonimato. Ché qui preferiamo essere inoffensivi o, al massimo, spregiudicati fino al limite dell'ammenda, del buffetto, dello stigma da talk-show pomeridiano.
Sono atea. I libri sacri, per me, sono libri. Libri e basta. Che contengono storie. Affascinanti, talvolta. Incomprensibili, persino inquietanti, talaltra. Il sapore oppiaceo delle religioni mi fa stare alla larga dai riti, dai bagni catartici, dagli ostensori, dalle campane tibetane e dagli inginocchiatoi, siano essi a pelo raso o di legno sbalzato.
Non sono francese. E, a dirla tutta, di solito i gallici non mi stanno particolarmente simpatici. Nazionalisti, snob, mangialumache a tradimento e viziati da quell'orribile erre moscia, invadono le città d'arte, chiedono informazioni nella loro lingua madre e pretendono risposte e, se ti sogni di comprare un pacchetto di sigarette in Provenza, dopo aver finto di non capire il tuo francese, alzano un sopracciglio e sbuffano: "Italienne?"
E sì, sono italiana. Abituata a giudicare per conto terzi, assuefatta al conflitto verbale, alle misurazioni da chi ce l'ha più lungo, agli idioti da stadio, ai dispettucci delle comari, alla prostituzione intellettuale.
Aborrisco la violenza. Quella degli altri, ché la mia è giustificata, se mi sorpassi a destra, se mi manchi di rispetto, se offendi la mia stirpe.
Sostengo la libertà di stampa. La mia e quella di chi mi aggrada, ché a Sallusti e Belpietro darei fuoco al tesserino da giornalista senza neppure passare dal via e ritirare le ventimila.
Io rispetto le religioni. Ma se mi suonano i testimoni di Geova alle otto di mattina, se la vicina neocat strilla i suoi "Hai capito?!?" ogni dieci secondi, un vaffa rotondo e grasso se lo beccano anzichenò. Con la rincorsa, se lo beccano.
Io non sono Charlie. Perché Parigi è a Parigi. Perché sono pigra e riottosa. Perché della Nigeria non frega niente a nessuno. Me inclusa.
Non sono Charlie, perché le parole sono come gli scatoloni: ingombranti, taglienti, pesanti.
Non sono Charlie. 
Ma, mi piacerebbe poterlo dire, nemmeno il suo contrario.



mercoledì 31 dicembre 2014

Tra un'ora


È stato un anno strano. Durante il quale ho imparato alcune cose e, di certo, me ne sono fatta sfuggire migliaia. Un anno di passaggio, fatto di bandiere che garrivano al vento e banderuole piene di fiato. Di parole nuove e cancrene. 
Topodimamma ha voluto sapere - per bene, 'stavolta - come nascono i bambini e ha scoperto il piacere di dire "delizioso".
Ho finito il romanzo. Be', due delle tre versioni quasi definitive. 
Papàditopo ha sorriso spesso, inventato nuovi giochi, portato a casa una mostra difficile.

Ma il Cane A Forma Di Cane (che poi è una cagna) si è ammalato. Oggi la veterinaria (benedetta donna, che suona al campanello il 31 dicembre) ci ha detto che resterà abbastanza in forze per non più di quattro, cinque mesi. E io mi sento già male.
Sono affondate navi, scomparsi aerei, scoppiate epidemie, esplose nuove guerre.
Ho perso fiducia nei lavoratori, fiaccati dalle minacce, dall'inedia, dall'accidia, da portatori insani di camicie bianche e dalle odi al proprio deretano.

Ma ho guadagnato alcuni amici. Altri mi hanno stupito. Altri, qualche volta, addirittura commosso.
Ho mangiato caramelle, fumato a tradimento, sperato di farcela.

Non amo i bilanci, ma ne stilo continuamente.
Non amo il servilismo, ma vi assisto. Ringhiando, magari. Ma a che serve?
Non amo le sconfitte, ma so essere indulgente con la mia fallibilità. Quasi sempre. Spesso. D'accordo: qualche volta (e non se ne parli più).
È stato un anno strano. Sospeso. Forse l'ha deciso Saturno. O la mia indolenza.

Ho la sensazione che, tra un'ora, si affaccerà un anno diverso. Dispari e fertile. E io ci sarò.
Ancora viva.

Dispari e fertile.
Dispari e fertile.
Dispari e fertile.